Monte di Pietà, sì ai privati ma che siano all'altezza

di Adolfo Scotto di Luzio
Domenica 11 Aprile 2021, 00:00
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Con un’intervista rilasciata al Corriere del Mezzogiorno la scorsa settimana, Michele Amoroso, imprenditore napoletano a capo di una società a responsabilità limitata che si intitola al Monte di Pietà ha lanciato pubblicamente il suo progetto per l’edificio monumentale oggi di proprietà di Intesa Sanpaolo e sul punto di essergli venduto. Già qualche giorno prima, il figlio di Michele, Alfredo Amoroso, succeduto al padre alla guida di una società di lavoro interinale quanto mai appropriatamente denominata «Generazione Vincente», in una intervista a Stella Cervasio per le pagine napoletane de La Repubblica, aveva scoperto le carte, dichiarando l’impegno a restaurare la Cappella, ma con l’intento di fare del Monte un albergo con negozi all’interno. Sulla vicenda ha fatto sentire la sua voce anche Enzo Miccio, esperto di addobbi per sponsali e pianificatore di cerimonie nuziali, intervistato sul Mattino da Paolo Barbuto. 

Su questa vendita e sulla qualità delle intenzioni dell’acquirente, sono intervenute tre senatrici del gruppo misto, Margherita Corrado, Bianca Laura Granato e Luisa Angrisani, che giovedì si sono rivolte a Dario Franceschini per sapere, nell’ordine, se il ministro dei Beni culturali, già destinatario di una petizione nel 2017, abbia poi dato seguito alla richiesta di vincolo di destinazione museale del bene e se non voglia sollecitare «con fermezza» il gruppo bancario a «donare» o «restituire» il palazzo al pubblico, attivandosi poi con le amministrazioni campane perché l’edificio venga destinato ad usi compatibili con la sua dignità storico-culturale. 

Nel testo dell’interrogazione, le tre parlamentari chiedono anche al ministro di intervenire per “chiarire” che un bene del valore di quello del Monte di Pietà, «di particolare valenza per la storia, anche sociale, della città di Napoli», non può essere destinato ad usi come quelli dichiarati dal suddetto imprenditore Amoroso e dai suoi associati. Le tre interroganti si lasciano anche andare per la verità a qualche considerazione storica, mettendo in fila il «sistematico depauperamento di risorse» di cui il Sud sarebbe stato vittima con l’Unità proseguito a loro dire con le «privatizzazioni degli ultimi decenni». In questo senso, la «restituzione» del Monte di Pietà assumerebbe il valore di «risarcimento». Sono ancora le tre parlamentari ad esprimersi in questo senso.

Rivendicazionismo storico a parte, è francamente implausibile, per non dire altro, pensare che Intesa Sanpaolo abbia un qualche obbligo alla donazione e tanto meno al risarcimento del Sud defraudato. In una situazione del genere, spetta allo Stato, sia a livello centrale che a livello regionale, riportare il bene nell’ambito della proprietà pubblica esercitando un doveroso diritto di prelazione. Solo così infatti è possibile tutelare quell’interesse generale alla conservazione del bene, che altrimenti diventa un mero orpello retorico. È indubbio, tuttavia, come ha fatto notare Carlo Iannello sul Manifesto del 2 aprile, intervistato da Adriana Pollice, che intorno a questa vicenda si annodino una serie di questioni che riguardano più in generale il modo con cui si è proceduto negli scorsi decenni sulla strada della liquidazione del patrimonio pubblico nel nostro Paese e, nel caso specifico, alla marginalizzazione degli interessi finanziari e in senso lato culturali del Mezzogiorno d’Italia. Solo su questo sfondo infatti è possibile comprendere la vicenda fatta di oblio e di abbandono in cui versa oggi il Monte di Pietà, bene sì prezioso ma anche dimenticato della città di Napoli.

Proprio il tipo di proposta avanzata per il suo recupero illustra con precisione questa condizione di cui dicevo. La decisione di vendere non è infatti una novità, ma non pare che da parte dello Stato si sia mostrato in questi anni, almeno dal 2017, una particolare attenzione nei confronti del Monte di Pietà. Né a quanto risulta la Regione si sia data più da fare. 

In questo vuoto di iniziativa, l’intervento dei privati appare discutibile ma non certo illegittimo. La vera questione in gioco è lo spessore della proposta, talmente incredibile da apparire, come è stata definita, provocatoria e offensiva. L’imprenditore napoletano Amoroso, nella intervista al Corriere del Mezzogiorno, pretende di rivolgersi a spiriti visionari, ma la verità è che la sua idea di trasformare un istituto di pubblica carità, nato per iniziativa di un’aristocrazia socialmente consapevole nel sedicesimo secolo, in una spa con ristorante di lusso per una clientela facoltosa è di una tale rozzezza culturale che solo chi non ha la minima nozione di mecenatismo privato e di responsabilità civile delle élite è in grado di concepire. Riprendendo un’illazione della giornalista del Manifesto, le tre parlamentari autrici dell’interrogazione al ministro Franceschini parlano a questo proposito di un espediente per alzare il prezzo della prelazione. Non so su quali elementi basino questa affermazione. A mio avviso non c’è bisogno di evocare nessun machiavellismo per avere la misura esatta del contesto di questa compravendita. 

L’idea che un bene culturale debba pagarsi e ripagare il suo diritto all’esistenza è infatti ampiamente diffusa, ma tra l’assoggettare la profittabilità di un’ investimento a rigide regole di bilancio e la pretesa di spacciare per amore di Napoli l’idea che per recuperare alla città una sua preziosa testimonianza artistica e architettonica questa debba pagare il dazio di una violenta trasformazione della sua destinazione, ce ne passa.

In questo senso concentrare l’attenzione sul venditore è un modo per eludere la questione dell’acquirente. Che il suo progetto sia campato per aria non lo rende per questo meno verosimile. Averlo concepito è infatti qualcosa di più di una provocazione. È un vero e proprio attestato circa lo stato di salute del mondo imprenditoriale napoletano. Nella vicenda del Monte di Pietà, nel Cinquecento e nel 2021, infatti stanno di fronte, l’uno contro l’altro, due modelli di intervento privato. Non dunque pubblico e privato. A confrontarsi sono, al di là dei secoli, due modi d’essere del privato. Gli aristocratici che nel XVI secolo pensarono di fare qualcosa per Napoli, non ebbero la bella idea di mettere in piedi un casino di caccia o qualche altro luogo di amenità e delizie. Per quello c’erano già le loro proprietà private. 

Ora, a nessuno viene in mente di proporre questo modello ai nostri imprenditori. Ma possibile che il privato dei nostri giorni debba rappresentarsi in modi così autosvalutativi? Non c’è nient’altro da fare che dare da mangiare a ricchi in cerca di qualche scenario di lusso nel quale collocare le loro serate? Il turismo è l’unico orizzonte di una città letteralmente devastata in questi anni da movide di tutti i tipi? Napoli ha sicuramente bisogno dell’iniziativa privata, ma per favore dateci dei privati che siano all’altezza di vocazioni imprenditoriali moderne.

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