Suicidi in carcere, non chiudiamo gli occhi

di Samuele Ciambriello
Giovedì 11 Agosto 2022, 00:00 - Ultimo agg. 07:00
4 Minuti di Lettura

Gli eventi tragici delle morti in carcere, sia per suicidio che morti su cui ci sono ancora indagini in corso, rappresentano una sconfitta della società e delle Istituzioni a tutti i livelli e devono farci riflettere.

Devono smuovere le coscienze di chi può fare qualcosa, può agire, e invece non lo fa, rimanendo inerme davanti ad un dramma umano. La fragilità di chi passa la propria esistenza dietro le sbarre deve essere intercettata in tempo, quindi deve essere aumentata l’osservazione di queste persone più a rischio, per proteggerle. I casi di suicidio nelle carceri fanno emergere, da un lato, il problema della difficile prevedibilità dei gesti estremi, ma, dall’altro lato, mette in evidenza l’esigenza di una maggiore capacità, da parte di chi opera all’interno delle carceri, nel diagnosticare e prevedere il pericolo concreto di atti autolesivi da parte di soggetti affetti da quelle forme di disagio psicologico che lo stato detentivo provoca o aggrava nei soggetti più fragili e in sofferenza emotiva.

L’estate – si sa – tende ad accentuare i disagi psicologici legati alla vita detentiva. Da questo stato di frustrazione, delle volte anche appesantito dalla mancanza di affetti e di legali familiari, scaturiscono situazioni di conflittualità, il cui epilogo chiaramente è condotte violente o folli gesti, quale appunto il suicidio. 

È fuor di dubbio che il suicidio non è oggettivamente prevedibile, ma ci sono dei campanelli d’allarme, “eventi sentinelle”, che ci devono inaquietare; non sono ammessi rinvii, ritardi, altrimenti dobbiamo rassegnarci all’idea che, per chi vive nel carcere isolato ed emarginato, l’unico finale possibile è il suicidio. E non possiamo accettare una simile conclusione. Io dico che ricorrere ad adeguate misure preventive può ridurre di molto il pericolo di gesti estremi. 
Il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, in questi giorni, ha emesso una circolare per prevenire il rischio suicidario. Sicuramente un importante slancio da parte dell’istituzione penitenziaria, ma io ritengo che non ci sia una soluzione univoca, né tantomeno una risoluzione è possibile trovarla a tavolino.

Non si possono prevedere certe soluzioni se a monte non si garantiscono figure adeguate e professionali in grado di comprendere e curare il disagio che la detenzione genera. 

Noi Garanti dei diritti delle persone sottoposte a misura restrittiva della libertà personale, da più tempo, ci siamo resi disponibili a fornire il nostro contributo per ideare una strategia di prevenzione, che però deve essere articolata e deve ascoltare le voci di chi il carcere lo vive, ma non solo nei panni di operatori penitenziari, ma anche di volontari, di cappellani, di magistrati di sorveglianza. 

I tre suicidi in soli cinque giorni avvenuti in Campania – dall’inizio dell’anno sono in totale cinque - mi convincono sempre più della necessità di un reale confronto sul tema del carcere, di cui la politica non si preoccupa per il semplice fatto che non genera voti, consenso. Il carcere esiste, è una realtà complessa; io lo definisco un inferno dantesco, il cui funzionamento si regge su un’organizzazione piramidale, che purtroppo è assai debole e spesso inefficiente. Nelle carceri mancano educatori, medici generici, psichiatri e psicologici.

È su questi temi che dobbiamo insistere: la vita dei detenuti passa attraverso scelte che dipendono da Roma. E, allora, la politica nazionale deve caricarsi di responsabilità e, prima di optare per una o un’altra misura, calarsi, anche solo per qualche ora, nella complessa realtà del carcere, così da capirne realmente le problematiche, che non riguardano soltanto i detenuti – attenzione -, ma tutto il personale che vi lavora all’interno. 

Ma la politica, che pensa al consenso, perché nei propri programmi elettorali non parla di giustizia e del pianeta carcere? Forse i segretari di partito restano i segretari con il pallottoliere a fare i loro conti e non a considerare che accanto alla “certezza della pena” si deve garantire anche la “qualità della pena”. 

© RIPRODUZIONE RISERVATA