Se lo Stato torna a imporsi sull'antistato

di Leandro Del Gaudio
Giovedì 11 Marzo 2021, 00:00 - Ultimo agg. 07:00
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Hanno deciso di non girare la testa. Di non voltarsi dall’altra parte, di non fare finta di vedere. Hanno deciso di affrontare un tema senza ondeggiare tra facili compromessi, quieto vivere e rendite di posizione: quello della legalità, che non ammette sconti, e dei simboli della camorra - o dell’antistato - che nutrono quotidianamente migliaia di giovani potenzialmente a rischio di diventare tante sentinelle del malaffare. Hanno ragionato in questo modo, gli esponenti del comitato per l’ordine pubblico e per la sicurezza che si è tenuto pochi giorni fa in Prefettura, per dare vita a una strategia per molti versi rivoluzionaria, che passa per un passo decisivo: sradicare murales e altarini, migliaia di simboli che deturpano da anni il nostro centro storico, ma anche edifici o parchi di periferia abitati - in maggioranza, ne siamo convinti - da persone oneste ed estranee ai clan e ai loro crimini. Una scelta di alto impatto, maturata sin dai primi giorni del suo insediamento a Napoli - ormai più di un anno fa - dal prefetto Marco Valentini, immediatamente colpito dalle bellezze della capitale del sud, ma anche dalla sua anima nera, che si arricchisce di simboli esposti in modo plateale sotto gli occhi di cittadini e istituzioni. 

E c’è una data che segna la linea di non ritorno in questa battaglia: è il 13 gennaio scorso, quando il Mattino pubblica l’intervista del prefetto che pone la questione dei murales. Ricordate l’intervento del primo inquilino di Palazzo di governo? «Ho chiesto più volte al Comune di far conoscere la sua posizione perché per parte nostra questi murales sono un pessimo segnale e andrebbero rimossi. Stiamo aspettando una risposta». Una riflessione figlia di un non detto facile da interpretare, a proposito di una richiesta scandita per mesi nelle sedi opportune che non deve aver sortito alcuna risposta da parte del Comune. Uno scenario rimasto cristallizzato ancora per settimane, mesi, con le forze dell’ordine - a partire dalla polizia municipale - pronte ad intervenire, in attesa di un atto formale che mancava, che non arrivava. Intanto, è andata avanti la campagna del Mattino nel fotografare l’indecenza visibile a tutti. Non solo i murales di Ugo Russo e Luigi Caiafa, i due giovanissimi uccisi mentre consumavano rapine - rispettivamente da un carabiniere e da un poliziotto -, ma un’intera galleria di simboli negativi: il palchetto per Emanuele Sibillo (boss della paranza dei bimbi ucciso nel 2015), finanche una cripta abusiva per un rapinatore di orologi ricordato dai propri cari con tanto di custodia esposta in bella mostra: quella di un Rolex, la specialità del vico. 

Simboli negativi, che veicolano valori distorti, per dirla con il procuratore generale Luigi Riello che, sia nel corso della sua prolusione all’anno giudiziario, sia nell’intervista resa oggi al Mattino, ribadisce un concetto: «La camorra e l’antistato si cibano di questi messaggi, murales e altarini vanno rimossi, ne va della nostra capacità di risanare nel profondo la collettività».

Fatto sta che c’è voluto un intervento del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese per rompere il ghiaccio e superare l’immobilismo di anni.

Via il murale di Caiafa in via Sedil Capuano, mentre in Procura una sezione di pm coordinata dall’aggiunto Vincenzo Piscitelli sta portando a termine la mappatura dello scempio del nostro patrimonio monumentale. Quanti ne sono i graffiti e gli abusi? Probabilmente migliaia, disseminati in tutta l’area metropolitana, una realtà diventata intollerabile. Ne va della vivibilità quotidiana, come ha denunciato in questi mesi - sempre dalle colonne di questo giornale - l’avvocato Valentina Varano, che ha raccontato una storia indegna di un paese civile: un gruppo di condòmini è stato costretto a tollerare la gigantografia di Luigi Caiafa imposta da amici e parenti del ragazzino ucciso (per la cui giovane vita distrutta resta il dolore di tutti), rischiando addirittura la beffa di una multa da parte del Comune. Ne sono seguiti appelli, denunce, in un racconto che accomuna virtualmente migliaia di persone. Quanti genitori hanno dovuto mentire ai figli, che chiedevano a chi appartenessero quei volti immortalati sulle mura sotto casa? E quanti turisti, negli anni scorsi, sono rimasti impressionati di fronte a immagini di tale degrado? Uno scenario distorto, in cui ha fatto rumore anche la decisione di alcuni intellettuali cittadini di sottoscrivere un manifesto in favore del murale di Ugo Russo, poi riprodotto addirittura nelle strade di Roma.

Come se la richiesta di verità e giustizia in un processo (richiesta che appartiene a tutti i cittadini di uno stato civile) potesse autorizzare l’imposizione di un volto, la santificazione di una scelta errata o di metodi violenti. Uno scenario che ora impone di agire, non solo in modo repressivo, a partire da una sfida: riempire gli spazi, sovvertire la tavola dei valori. Si potrebbe ricominciare con un murale di un operaio morto sul lavoro, di un vigilante aggredito alle spalle o di una donna stroncata mentre assisteva i propri cari. 

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