Perché non può bastare ​solo la repressione

di Fabrizio Coscia
Giovedì 23 Marzo 2023, 00:00 - Ultimo agg. 06:00
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Adesso sappiamo che a Napoli si può uccidere anche per una scarpa macchiata. Sappiamo che per un paio di sneakers bianche imbrattate di qualche goccia di vino o di spritz si è pronti a sparare tra la folla e a colpire un innocente capitato per caso. Una morte assurda, quella di Francesco Pio - per beffarda fatalità, lo stesso nome del presunto assassino - vittima di una violenza cieca, insensata, di fronte alla quale siamo tutti coinvolti. Bisogna prenderne atto. È uno stato di emergenza - di assedio - che va dichiarato senza indugi. 

Una strage che si sta compiendo sotto i nostri occhi. Difficile anche da commentare un episodio così grave. Eppure occorre farlo, e farlo con lucidità. E occorre capire, prima di tutto, che il disagio giovanile a Napoli non è uguale a quello che si vive in tutte le altre metropoli non solo d’Italia, ma d’Europa. Ha una sua specificità da considerare, se vogliamo davvero combatterlo.

Le premesse del fenomeno sono comuni, certo. Ci troviamo di fronte a un paradosso che investe tutta la civiltà occidentale: da un lato la cosiddetta «società liquida» ha annullato i confini simbolici, i ruoli, i criteri normativi, ha reso fluide le relazioni, le strutture di una società sempre più globalizzata; dall’altro, in reazione, assistiamo alla solidità di un raggruppamento identitario, a un’esclusione e un rifiuto della differenza, della diversità, a una chiusura nel particolarismo. Questo paradosso, a Napoli, si innesta su un sostrato potenzialmente esplosivo, laddove quel rigurgito identitario e particolaristico assume caratteristiche proprie, che sfuggono a ogni analisi generalizzata. 

Un dato importante da considerare, allora, è che a Napoli il disagio giovanile a tendenza delinquenziale è radicato in una questione sociale annosa e irrisolta, che coincide con la questione delle periferie, segnate dall’assenza dello stato e dall’abbandono di politiche di riconversione o di investimento economico di qualsiasi tipo. Periferie che a Napoli non coincidono soltanto, geograficamente, con i margini (penso a San Giovanni-Barra-Ponticelli a est, a Scampia-Secondigliano a nord, a Rione Traiano a ovest), ma sono presenti nel cuore stesso della città, con quartieri come Forcella, la Sanità, i Quartieri spagnoli. Anche qui, nel centro, il disagio giovanile - che non ha nulla a che fare con un problema di immigrazione mancata, come nelle periferie delle altre metropoli, ma è tutto indigeno - è strettamente collegato all’emergenza delinquenziale. Anche qui, sui minori a rischio, deprivati, che evadono la scuola, incombe l’ombra della criminalità organizzata: il passaggio dal disagio alla delinquenza è spesso diretto, poiché la camorra ha bisogno di manovalanza e i minori cercano di mettersi in mostra in tutti i modi, anche con una disponibilità alla violenza efferata, per essere reclutati nelle bande.

Questo produce, di conseguenza, l’individuazione di alcune zone «neutre» di Napoli, quelle della movida, che diventano occasioni di scontro tra paranze delle diverse zone della periferia, esterna e interna alla città: una di queste zone è proprio Mergellina, che con i suoi chalet, esattamente come Chiaia con i baretti, è meta di incursioni, di spedizioni punitive, di esibizioni di forza.

Questa è stata anche la dinamica che ha portato alla morte accidentale di Francesco Pio: l’indagato, un ventenne proveniente da Barra, è infatti esponente di una famiglia della criminalità organizzata ben nota alle forze di polizia (il padre affiliato a un clan del quartiere ucciso dieci anni fa in un agguato, la nonna condannata per associazione camorristica) e il bersaglio reale della sua sparatoria, a quanto pare, era un ragazzo del Rione Traiano, entrato in collisione con lui insieme alla sua comitiva della Loggetta. 

Le modalità mafiose che gli sono state imputate come aggravante sono dunque le modalità dell’ennesimo tentativo di affermazione dietro il quale non c’è nessuna rivalsa sociale, nessun desiderio di integrazione, ma piuttosto una criminosa, brutale voglia di conformismo universalizzato da rivendicare però all’interno della propria identità clanica. 

L’appartenenza al quartiere, alla «famiglia», cioè, coincide - o dovremmo dire implode - con il desiderio di affermarsi al di fuori di ogni «confine», in una zona neutra, appunto (spesso gli appuntamenti per le «sfide» avvengono, non a caso, in quel non-luogo per eccellenza che sono i social). Ecco allora che un paio di Sneakers, se rovinate al di fuori dal proprio «territorio», possono produrre un’esplosione di follia: il culmine della spersonalizzazione - il marchio global, la moda che ci rende indifferenziati, perché così ci vuole il dio mercato - non regge al corto circuito provocato dall’impeto dell’arroccamento identitario, che vuole escludere l’altro da sé, annientarlo, distruggerlo.

Come fermare, dunque, questa escalation di violenza? Abbassare l’età punibile non serve. La repressione senza prevenzione è destinata a un sicuro fallimento. C’è un lavoro enorme da fare, investendo nella cultura e nella scuola - non ci stancheremo mai di ripeterlo - ma anche riprogettando la città con una massiccia riqualificazione delle periferie - quelle dei margini e quelle del centro -, con una decentralizzazione urgente dei luoghi della movida e una politica sociale ed economica inclusiva, senza mai abbassare la guardia nella lotta alla criminalità organizzata. È un lavoro a lungo termine, ma da cominciare subito, adesso, se non vogliamo che altro sangue innocente venga versato sulle nostre strade.

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