Palazzo Fuga, la grande sfida frenata da mini interessi

di Piero Sorrentino
Lunedì 6 Giugno 2022, 00:00
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Sul sito del Ministero per il Sud, per chi volesse, è possibile scaricare addirittura un ebook: “100 idee per l’Albergo dei Poveri”. È la raccolta delle proposte ricevute durante la campagna di ascolto lanciata dai due ministri Carfagna e Franceschini – rispettivamente Sud e Beni culturali – per il recupero e la valorizzazione di Palazzo Fuga. Dentro vi si trova un po’ di tutto, dagli usi per fini socio-assistenziali a quelli finalizzati alla creazione di startup tecnologiche, passando per musei di scienze naturali, laboratori di pittura e scultura, fino a una vera e propria cittadella scolastica e universitaria. A una lettura superficiale potrebbe apparire un catalogo di fantasie velleitarie e infantili, si tratta invece di un inventario degli affetti e delle idee che sintetizza alla perfezione l’attenzione e l’interesse della città per quel suo luogo così pieno di storia e così appesantito dalle eterne inadempienze e vacuità cittadine. 

L’anello di congiunzione tra queste due condizioni – e insieme la rivelazione lampante del processo continuo tra la volontà di imprimere alle cose della città un nuovo corso e quella di mantenerle così come sono, fisse e immobili – viene fornita in queste settimane da una battaglia, quella contro la proposta di spostamento della sede della biblioteca nazionale da Palazzo Reale a Palazzo Fuga, la cui anomalia è tutta caratterizzata proprio da questa frizione infinita. Non è forse stato abbastanza notato, del resto, che sollevazioni del genere servono soltanto a dividere, a tracciare solchi e confini.

Cosa si ottiene con questa mobilitazione dei lavoratori che si oppongono allo spostamento, che cioè si fanno sentire contro lo spostamento in sé, contro l’atto stesso di voler portare quel patrimonio librario e archivistico da una zona all’altra della città? Perché a parte questo, non si indovinano granché bene le altre ragioni della protesta. Che lascia molto l’amaro in bocca, anche perché quelle voci contrarie non si erano particolarmente percepite, quando nei mesi scorsi alla Biblioteca vi si poteva accedere solo per quattro ore, dalle dieci alle quattordici, oppure quando incombeva la regola di un numero ridicolo di persone autorizzate allo stazionamento in Sala Lettura; oppure quando altre sale e Fondi di consultazione erano – e sono – chiusi e inaccessibili da anni, per tacere del fatto che si richiedeva la prenotazione dei volumi con due giorni di anticipo (mentre chiunque abbia fatto ricerca sa che da un libro ne spunta un altro, da un riferimento bibliografico ne vengono fuori altri due o dieci, ed è impensabile credere di poterli conoscere tutti nelle 48 ore precedenti).

A parte il fatto che per la Nazionale non si tratterebbe del primo trasloco – nel ‘700 si trovava presso l’attuale Museo Archeologico, e prima ancora era a Capodimonte – quello che diventa faticoso da capire è quale sia il ruolo di una biblioteca centrale in una grande città come Napoli senza che si faccia un ragionamento serio non solo sugli spazi, ma sui servizi, che sono quelli che sono.

E se poi proprio di spazi vogliamo parlare, allora perché non dire che negli attuali depositi di Palazzo Reale non c’è più posto, così come non c’è posto per rendere la biblioteca un luogo vivo, come accade pressoché in tutte le grandi città europee, dove le biblioteche ospitano mostre, dibattiti, convegni, oppure semplici aree bar con servizi igienici attrezzati, aria condizionata ecc.? 

Parliamo di questo, se vogliamo discutere di spazi, non di diktat basati su settarismi ideologici o sindacali che difendono a prescindere lo status quo. Quella di Palazzo Fuga è una prospettiva concreta di recupero di poli urbani fondamentali di cui non facciamo che discutere da decenni. Parole su parole su parole.

Nel suo fondo inaugurale del 3 giugno, il nuovo direttore Francesco de Core – parlando del Mezzogiorno toccato dalla imminente pioggia di fondi europei del PNRR – indicava la sacrosanta necessità di mettersi «al riparo dalle tentazioni di accomodamenti al ribasso» affinché si possa «cogliere una chance che mai più si ripresenterà (…) soprattutto per i giovani che non vogliono abbandonare la loro terra ma che dalla loro terra non intendono più sentirsi traditi».

E sta proprio in questa prospettiva di futuro l’obbligo di Napoli di non trasformare una rivoluzione, ancora una volta, in una piccola guerra locale.

La questione di cosa fare dell’ex Albergo dei Poveri è una di quelle centrali in città, e ora che quel grande edificio è destinatario di un primo finanziamento di cento milioni di euro, non possiamo permetterci di restare aggrappati ai simboli in sé, senza pensare all’armonia e alla necessità di un tutto funzionante, dove non si parta ancora una volta con assalti all’arma bianca solo per difendere il poco che si ha, ignorando il molto che si può offrire alla città.
 

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