Il partito del “no” che blocca ogni progetto di rilancio

di Piero Sorrentino
Lunedì 20 Giugno 2022, 00:00
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Molto più che in altre città italiane, a Napoli lo scollamento tra le parole e le cose è diventato ormai uno degli stupefacenti elementi che più la caratterizza. Moltissimo si parla, pochissimo si fa. Questa è la città dei progetti, degli obiettivi da raggiungere, dei buoni propositi da mantenere, degli scopi da perseguire. Non esiste nessun’altra realtà del Paese – forse pure d’Europa o del mondo – dove si discute tanto e di tutto, fino allo sfinimento, salvo poi far schiantare qualsiasi piano contro un gigantesco muro di granito fatto di due lettere: No.

Napoli passa per essere la città dei “Sì”, mentre è l’esatto contrario. Ed è davvero difficile trovare qualcosa di più inspiegabile del paradosso di reclamare – letteralmente ogni singola volta su ogni singola questione – i cambiamenti, salvo poi buttarsi a capofitto in rifiuti oltranzisti capaci solo di negare e mai di proporre, bloccare e mai costruire. Questa è la scena perenne che a Napoli torna a essere proiettata daccapo pressoché su tutto, da Bagnoli a Città della Scienza, dalla faccenda famigerata delle grate di aerazione della metropolitana di piazza del Plebiscito alla pala d’altare di Caravaggio chiesta in prestito, qualche anno fa, dal museo di Capodimonte, dal progetto di spostamento della Biblioteca Nazionale nell’Albergo dei Poveri agli esercenti e commercianti che contestano il nuovo “Regolamento di sicurezza urbana” appena approvato dalla Giunta comunale. Così non è che sia difficile fare le cose. Così è impossibile farle.

Qualcuno sa dire che cosa ci si può aspettare da una città il cui modello di discussione è così impostato? È questa la vera specificità negativa di Napoli e delle sue ingarbugliate vicende: il peso enorme che da noi ha l’abitudine a mettersi di traverso su tutto. A prescindere, avrebbe detto Totò. Una specie di algoritmo del risentimento che torna a ciclo continuo e che la trasforma nella città dei veti, aggiornando il suo storico ribellismo in una versione contemporanea che è il suo vero e profondo motore immobile.

Questo potere impalpabile e astratto, tuttavia ferocissimo, nasconde una vera e propria ideologia – e di conseguenza una visione del mondo – con almeno due caratteristiche.

La prima, nutrire una cultura del sospetto perenne, per colpa della quale ogni discorso sul futuro, oppure ogni tentativo di cambiamento, nasconde germi di corruttela, clientelismo, disonestà. Se quelli propongono questo – è lo schema mentale che subito si innesca – qualcosa ci sarà sicuramente sotto, chissà quali indicibili interessi, quali vergognosi scambi di favori. Sui motivi reconditi e inconfessati della proposta di trasferimento della Biblioteca nazionale avanzata dal ministro Franceschini, in queste settimane, ne ho sentite di così strambe e contorte che nemmeno in un romanzo di John Le Carré. Seconda caratteristica, far passare come virtù l’impossibilità di discutere del futuro e di modificare la condizione presente delle cose, promuovendo l’idea che la stasi e l’immobilismo siano qualcosa di simile a una forma di governo nella purezza delle cose. Non tocchiamo nulla, lasciamo tutto così com’è, vedrete che soltanto così potremo garantire la legalità e la regolarità. Sapete come funziona qui da noi, esistono torme di affaristi, faccendieri e maneggioni che sono pronti a infilarsi dentro qualsiasi fessura di novità che si apre per mangiarsi tutto, meglio non consentirglielo.

La conseguenza di tutto ciò è sotto gli occhi di chiunque abbia ancora occhi per vedere: ci si nasconde nei problemi percepiti o potenziali e non si affrontano i problemi reali, con l’effetto paradossale che occupandosi solo dei falsi problemi, i problemi veri si rafforzano ogni giorno di più. Ma rendere impossibile la vita a chi governa non è una chissà quanto sofisticata forma di difesa del popolo o di tutela della democrazia. Bisogna battersi contro questa idea per cui la protezione dello status quo serve a proteggere la città da ben peggiori rivolgimenti in arrivo. Da qui monta la generale sensazione d’immobilismo di cui ci sentiamo preda da decenni, da qui viene la percezione di essere schiacciati in un eterno presente, quale che sia la realtà politica, sociale, storica ed economica della città. Forse contro l’irresponsabilità totale della cultura del no è venuto il momento di piantarla con indulgenza e comprensione.
 

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