Dai baretti al mare, spazi pubblici come un ring

di Fabrizio Coscia
Mercoledì 18 Maggio 2022, 00:00 - Ultimo agg. 06:03
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Quando porto a passeggio il mio cane su via Caracciolo mi sorprendo a volte a immaginare come sarebbe il lungomare se fosse un’unica infinita spiaggia, come quella che si estende fra l’Avenida Atlantica e Ipanema a Rio de Janeiro, con la suggestiva transizione tra la città e il mare, le iconiche pavimentazioni, la contiguità calibrata tra spazio del lavoro e tempo libero, la vivacità brulicante dei corpi esposti e il flusso delle auto, dei pattini, delle bici e degli skate-board. Mi perdo a fantasticare di un mare che finalmente bagni tutta Napoli.

Ma poi arriva sempre qualche notizia che mi riporta con i piedi per terra, anzi peggio ancora, come in quell’aneddoto raccontato da Platone, dove il filosofo Talete passeggia studiando le stelle e finisce per cadere in un pozzo, tra gli sberleffi della servetta tracia. La caduta nel pozzo, stavolta, me l’ha procurata il video sulla rissa selvaggia scoppiata domenica nella spiaggia delle Monache a Posillipo, dove un uomo è stato preso a colpi di casco da un altro, che ha tentato anche di affogare il rivale, tra il tifo dei presenti, scene di panico e bambini in lacrime. La causa della contesa è stata un banale diverbio per la precedenza sul posizionamento dei teli in spiaggia. 

Nella stessa mattinata, a pochi chilometri di distanza, sempre a Posillipo e sempre a mare, sugli scogli di Marechiaro, due minorenni sono stati accoltellati (e ricoverati in gravi condizioni in ospedale) da un coetaneo (figlio di un boss), per una lite nata sui social riguardo una ragazzina contesa. 

Ecco, allora, che il mio sogno di una Copacabana partenopea abortisce miseramente e si trasforma in un incubo. Ma perché qui tutto ciò che è spazio pubblico deve diventare degrado? Le risse domenicali sul mare di Posillipo sono, a tutti gli effetti, un cedimento di civiltà - l’ennesimo - ma da dove nasce questa spaventosa deriva? E come si collega all’altra faccia violenta di Napoli, quella della movida del sabato sera? Io credo che dovremmo incominciare a familiarizzare con l’idea che per una città conti molto più lo spazio del tempo.

Che cosa voglio dire? Che la progettualità nello spazio è più importante della progettualità nel tempo. Da questo punto di vista uno dei più grandi fallimenti politici non solo locali ma nazionali, per quanto riguarda Napoli, è stato l’incapacità - o la non volontà - di ascoltare il disagio delle periferie. A maggior ragione in una realtà urbana come la nostra, che ha la peculiarità di avere non solo una periferia attorno al centro, ma anche una periferia nel cuore stesso della città. Entrambe le periferie sono state e continuano a essere uno spazio delimitato dalla segregazione e dall’assenza.

E dalla rimozione, vorrei aggiungere. Ma la rimozione politica e sociale ha, al pari di quella psicologica, sempre un ritorno in forme deformate, perturbanti. In questo caso è la forma della violenza, della rabbia, dell’aggressività, e di quella criminalità organizzata che ha storicamente occupato tutti gli spazi disertati dalle istituzioni. 

Queste torme di adolescenti che il sabato sera sfrecciano sugli scooter dai quartieri della periferia orientale e settentrionale o del centro storico, per seminare il panico a Chiaia, o a piedi nelle zone del Vomero, o la domenica mattina sulle spiagge di Posillipo, sono allo stesso tempo il disagio e la malattia di un tessuto sociale incancrenito. I quartieri della «Napoli bene» - orribile espressione - le zone dei cosiddetti «chiattilli», diventano per costoro terra di conquista dove affiggere il proprio vessillo di vincitori di una challenge simbolica lanciata per sfregio a una società che li ha abbrutiti con le sue promesse di consumo e guadagno facile. Il sopruso, l’ingiuria, l’aggressione sono un modo per affermare la propria esistenza agli occhi di chi queste esistenze preferisce ignorarle. L’uso dei social, per di più, eleggendo a protagonismo lo spazio virtuale, rende tutto più fluido, con ricadute ancora peggiori nello spazio reale. Quel che conta è appropriarsi dello spazio pubblico con la violenza e l’intimidazione, all’insegna del mitico slogan gomorristico «ce ripigliammo tutto chello che è ‘o nuosto». Perfino le spiagge, perfino il mare.

Come ribaltare dunque questa situazione? Certamente non trasformando il fenomeno unicamente in un problema di ordine pubblico. Ma in un’assunzione di chiara responsabilità politica, proponendosi di trasformare finalmente tutte le periferie della città - quelle esterne e quelle interne - da spazio del «disfacimento» in spazio del «rifacimento». Quei luoghi di ghettizzazione devono aprirsi al resto della città e ai suoi stessi abitanti, con servizi, piazze, centri di aggregazione, scuole, palestre, cinema, occasioni d’incontro, lidi balneabili (laddove ci sia la possibilità), ma anche e soprattutto con formazione professione e culturale. Le parole d’ordine devono essere: dislocazione, istruzione e socializzazione. Certo per risolvere la questione occorrerebbe un vero e proprio «piano Marshall» nazionale, mentre - mi pare - si continua a non investire, a girarsi dall’altra parte. O meglio, si continua a camminare come Talete studiando le stelle con gli occhi in su, e il rischio di cadere in un pozzo. O nel mare di Posillipo, sporco di sangue versato.

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