A Napoli la scuola sicura è solo un'illusione

di Titti Marrone
Martedì 26 Gennaio 2021, 23:30
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Nella città dei sogni, e nel Paese ideale, la scuola è, insieme alla sanità, un diritto alla portata di tutti. Nella città reale, e nel Paese in cui viviamo, si tratta di priorità solo a parole, invocate da qualsiasi politico o pubblico amministratore nel manifesto d’intenti dei primi cento giorni ma poi presto dimenticate e sempre lasciate indietro. Ora che siamo in piena pandemia, e nessuno sa dirci se nel colpo di coda di una seconda fase o all’inizio della terza ondata, la scuola si svela per quello che è: non solo la cartina al tornasole di responsabilità pubbliche tradite e capacità millantate, ma anche il campo di battaglia di irresponsabilità private contrapposte, con genitori, docenti e studenti intenti a contraddirsi schierandosi a fasi alterne pro o contro le riaperture.


Cominciamo dalle inadempienze pubbliche partendo dagli assembramenti registrati con il ritorno in classe delle medie dell’altro giorno: ci hanno fatto vedere plasticamente quanto illusorio fosse aspettarsi proprio ora un qualche cambiamento, in termini di efficienza organizzativa, in una realtà caratterizzata dal paradigma dell’incapacità. Era pensabile che in qualche mese si risolvesse il problema annoso di spazi angusti per istituti scolastici spesso ospitati in appartamenti, con relative strettoie antistanti gli ingressi? 

Si era per caso intravisto, da marzo ad oggi, qualche segnale in grado di modificare le deficienze di un’edilizia scolastica nei decenni sempre più disastrosa? Si era seriamente pensato a come reperire spazi alternativi, per esempio mettendo a disposizione locali del patrimonio immobiliare comunale, cercando di accedere agli ex convitti poi acquisiti dalla curia, alle chiese non destinate al culto, ai beni sottratti alla camorra? Ma soprattutto, da qualche parte qualcuno aveva immaginato una specie di patto collettivo, sociale e politico, per rilanciare veramente la scuola chiamando in causa la comunità locale e nazionale a ridisegnare il modello di un sistema dell’istruzione inclusivo e privo di diseguaglianze?


Niente di tutto questo è avvenuto, e certo anche il tempo non ha giocato propriamente a favore. Ma tornando all’esempio degli assembramenti davanti alle scuole, è anche vero che il disegno della città, con le sue strozzature e le strade strette, non si poteva certo cambiare in qualche mese. Né si può immaginare che basti qualche agente di polizia municipale in più a controllare o frenare la naturale spontanea esuberanza dei ragazzi. Mentre quella confusione potrebbe essere evitata da una più attenta rimodulazione degli orari e da singoli comportamenti responsabili di studenti ma anche di genitori spesso inopportunamente accalcati agli ingressi.


Qui il tema della responsabilità chiama in ballo anche il piano personale.

E lascia perplessi la constatazione di come il fronte del rientro a scuola veda schierati l’un contro l’altro i due contingenti, “a favore” o “a sfavore”, animati da analoga veemenza e più o meno con un uguale numero di partecipanti. Per cui, ad ogni petizione “si riaprano le scuole di ogni ordine e grado”, se ne aggiunge subito un’altra, contraria alla riapertura e infoltita da analogo numero di studenti, docenti, genitori. Roba da rendere a dir poco complicato accordare l’iniziativa pubblica con una decisione che non susciti proteste dalla parte rimasta delusa.


E certo, il prezzo pagato dalle generazioni di ragazzi privati della didattica in presenza e della socialità scolastica è e sarà alto: se ne vedono già gli effetti. Però, per quanto la Dad sia stata dura, alienante e a tratti perfino discriminatoria, bisogna ammettere che lo sforzo fatto in questo senso dagli insegnanti come dai ragazzi è stato notevole. E quel modo di fare lezione è stato comunque meglio di niente. Non è nemmeno appropriato, poi, definire gli studenti che hanno vissuto una simile esperienza “generazione Covid”, quasi lasciando loro quello che Massimo Recalcati chiama “il torbido beneficio della vittima”. Aiuterebbe di più, invece, sollecitare in loro il senso di responsabilità, preparandoli, insieme a noi stessi, all’eventualità che una riapertura generalizzata delle scuole possa produrre un incremento dei contagi e rendere necessarie nuove reiterate chiusure. Ci auguriamo di no, ma con il senno di poi possiamo dire che da questo punto di vista il ritardo nell’apertura delle scuole in autunno non è stata una mossa così sbagliata. 


Ma soprattutto, adesso tocca anche fare di necessità virtù, fare i conti con la città che abbiamo, con le scuole che abbiamo, con l’anno scolastico che andrà concluso senza illudersi che un’ordinanza in un senso o nel senso inverso possa risolvere i problemi. E sì, lo diceva Calamandrei, la scuola deve garantire sempre e comunque un’educazione perché ciascuno possa “rialzare la testa dalla terra per intravedere, in un filo di luce che scorre dall’alto, fini più alti”. Ma se la pandemia infittisse la tenebra del presente, in troppi potremmo non avere più nemmeno una testa da sollevare. 
 

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