L'antibandana del prof mite (ma ora serve l'elmetto)

di Vittorio Del Tufo
Martedì 19 Ottobre 2021, 00:00 - Ultimo agg. 06:00
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Il volto un po’ tirato, emozionato ma nemmeno tanto, mite e pacato come da cartolina. Dopo essersi preso Palazzo San Giacomo senza fare ammuina, quasi controvoglia, superando amletici (ma pacatissimi) dubbi, Gaetano Manfredi ha indossato ieri la fascia tricolore sfilandola di dosso a Luigi De Magistris, il sindaco barricadiero. La bandana, invece, quella no: il prof l’ha lasciata volentieri al suo predecessore, simbolo di un decennio che verrà ricordato più per le sparate demagogiche - da qui il neologismo demagogistris - che per la capacità di incidere sui problemi veri, e urgenti, della città.

Non ci accoderemo alla folta schiera di quanti ritengono che la forma sia già di per sé sostanza, e che la sobrietà sia essa stessa sinonimo di buon governo. Meglio essere cauti, e attendere l’ex rettore alla prova dei fatti. Quelli (i fatti) non puoi fregarli né con una bandana arancione stretta intorno alla fronte né con l’abito tirato a lucido, perché hanno la pessima abitudine di presentare il conto.

Tuttavia il passaggio di consegne tra De Magistris e Manfredi segnala anche simbolicamente un cambio di stile, o preferite di tocco. Quello di DeMa era un tocco virtuale, spesso maldestro e addirittura violento nei toni, esibito il più delle volte per nascondere il vuoto di iniziative e progetti concreti (nonché la mancanza di soldi per realizzarli). Era il tocco di chi è rimasto immerso, per oltre dieci anni, nella dimensione del vorrei ma non posso, inseguendo più l’estetica dei simboli che il rigore dei risultati. 

Quello di Manfredi è invece un tocco vellutato, di chi prova a misurarsi con la complessità dei problemi senza indulgere in declamazioni teoriche o smargiassate. Non a caso la sua prima mossa, da sindaco, è stata quella di chiamare i leader della coalizione da cui è sostenuto (Pd, Cinquestelle e Leu) per chiedere di far avanzare le norme - e i soldi - necessari per sgravare il Comune di Napoli dal mostruoso debito da cui è schiacciato. La seconda, invece, è stata quella di avvertire chi deve garantire il funzionamento dei servizi pubblici (a cominciare da metrò e funicolari) che d’ora in avanti non saranno più tollerati ricatti sulla pelle dei cittadini. Sarà pure sobrio e pacato, ma il prof non è certo dolce di sale. Può essere un buon inizio, all’insegna della concretezza, a patto che vi sia una prospettiva, un’idea di rilancio. E soprattutto una squadra di tecnici competenti.

Con il passaggio di consegne tra vecchio e nuovo sindaco si realizza dunque la transizione tra una dimensione puramente virtuale, se vogliamo estetica del potere, e la promessa di un’amministrazione votata alla concretezza e al pragmatismo. Di certo non è lo stile a fare la differenza, come l’abito non fa il monaco (figuriamoci la bandana).

Meglio fare appello, dunque, all’etica della responsabilità. Scriveva Laurent Binet in un bel libro uscito lo scorso anno («La settima funzione del linguaggio») che «serve molta intelligenza per convincere gli altri che governare consiste nel non essere responsabili di niente». L’amministrazione passata verrà ricordata, probabilmente, per la vuota autoreferenzialità del sindaco che l’ha guidata, dovuta in larga parte al suo ipertrofico ego. Ciao Al, sono Gigino. Molta lotta, poco governo. Molti simboli, pochi fatti. 

Potremmo citare, a titolo di esempio, quello che definimmo il lavacro dei fiorellini di bosco. Nei giorni in cui i Grandi della Terra discutevano, a Napoli, dell’emergenza ambientale il Comune spruzzava di verde il percorso delle delegazioni e lavandosi la coscienza con una spruzzata di fiorellini nei vasi di piazza Vittoria, molto decorativi. Dopo aver distrutto intere zone della città, desertificato Posillipo e la Villa Comunale, tagliato massivamente gli alberi malati senza una contestuale e tempestiva messa a dimora di nuovo verde, l’amministrazione si affidava dunque al linguaggio dei segni: un approccio puramente mediatico che non ha impedito alla città di capovolgere un destino di inconcludenza. Stesso discorso potrebbe essere fatto per il trasporto pubblico, in particolare quello offerto dalla metropolitana. Anzi in questo caso appare ancora più evidente il progressivo scivolamento da una dimensione amministrativa a una dimensione simbolica, senza che a questo abbia fatto seguito, per dire, un potenziamento delle corse. Il metrò a Napoli non lo si prende, lo si osserva. Quasi che la grande bellezza delle stazioni, disegnate da archistar ispirate, possa cancellare in un attimo i disservizi, le inefficienze, i disastri.

Ma la bellezza può compensare il cattivo funzionamento dei servizi? Ovviamente no, con l’autocompiacimento non si va da nessuna parte. Immaginiamo che questo Manfredi, uomo pratico, lo sappia bene. Per questo attendiamo il nuovo sindaco alla prova dei fatti: abbiamo motivo di ritenere che non intenda rifugiarsi, come il suo predecessore, in un mondo parallelo, in un eterno paese delle cuccagne dove le campane suonano a festa anche quando non c’è nulla da festeggiare. Questa non è Fiabilandia, è Napoli. Una città complessa dove la fatica di vivere, per strati sempre più ampi della popolazione, è diventata insopportabile. Possiamo e dobbiamo augurarci che dietro lo stile sobrio, e il passo felpato, ci sia tanta, tantissima sostanza. Il cambio di stile, e di lessico, è già una novità importante, in una città sempre pronta a mettere il suo destino nelle mani del Masaniello di turno.

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