Il coraggio di ripensare la macchina comunale

di Sergio Sciarelli
Giovedì 13 Gennaio 2022, 00:00 - Ultimo agg. 07:00
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Il programma di governo annunciato dal sindaco Manfredi prevede, una volta trovata una possibile soluzione per il problema del debito, come obiettivo centrale da raggiungere la riforma della macchina comunale, nella giusta convinzione che senza un’organizzazione efficiente è difficile tentare di affrontare la crisi di una città massacrata da almeno un ventennio di cattiva amministrazione. 

Il tema della riforma preannunciata non presenta però problemi soltanto di carattere organizzativo e non può limitarsi all’integrazione dell’attuale pianta organica con il rafforzamento, in particolare, del livello apicale. Ciò considerando che, secondo gli ultimi dati disponibili, i circa 18.000 dipendenti del Comune di Napoli in servizio nel lontano 1993 si sarebbero ridotti a poco più di 6.000 unità (a cui però andrebbe aggiunto il personale delle partecipate) e che, tra questi, le figure di vertice si sarebbero più che dimezzate (da 215 a 101). Il quadro dal quale si deve partire è, dunque, quello di un organico fortemente deperito e, soprattutto, falcidiato a livello manageriale.

È comprensibile, pertanto, che questo problema vada risolto prioritariamente e compatibilmente con le risorse disponibili per ritornare quanto prima a un normale funzionamento dell’Ente comunale. Il punto però da sottolineare è che il problema dell’organico comunale non può che essere affrontato in un quadro più generale di riordino dell’ampia galassia di organizzazioni, aziende speciali e organi decentrati facenti capo al Comune. Occorre cioè inquadrarlo sulla base di principi di governance discussi e definiti con il consenso politico del Consiglio comunale e compatibili con le risorse disponibili.

Affrontare, quindi, la questione della riforma della macchina comunale non vuol dire risolvere il problema di reclutare competenze adeguate per la riorganizzazione del Comune, ma deve essere necessariamente legato al modello di cambiamento della filosofia di gestione. 

In altri termini, prima occorre definire da parte della nuova amministrazione la strategia di governo della città e, solo dopo, si potranno adottare le scelte organizzative conseguenti.

A questo proposito, ci sembra opportuno fare brevemente cenno a due scelte di portata innovativa: la decisione relativa all’attuazione del decentramento amministrativo (con la definizione di un ruolo più operativo delle Municipalità) e la strategia di privatizzazione di alcuni servizi pubblici. Si tratta, ovviamente di decisioni politiche non semplici, che si sostanziano nell’attribuzione di più ampie deleghe dal centro alla periferia e nella valutazione dell’esigenza, sempre più avvertita, del passaggio per le Partecipate da gestioni burocratiche a gestioni aziendali di tipo manageriale. 

È difatti intuibile che, rispetto alla possibilità di dare maggiore sostanza al decentramento e di fare partecipare l’imprenditoria privata alla produzione di servizi, si possano prevedere non poche resistenze a livello politico.

Si tratta, in effetti, di accettare di coinvolgere nella distribuzione di compiti e responsabilità le Municipalità, a cui conferire finalmente un ruolo, e di superare ostacoli e difficoltà pregiudiziali nei confronti di una collaborazione pubblico-privato che tuttavia anche nella nostra realtà ha fatto registrare casi di successo (vedasi l’aeroporto di Capodichino e il termovalorizzatore di Acerra).

È chiaro che il decentramento, previsto nella Costituzione italiana e avvalorato dall’istituzione nel 2005 delle dieci Municipalità comunali, dovrebbe portare ad un più efficace presidio del territorio, ad una riduzione delle distanze tra chi governa e chi è governato e, di conseguenza, a un maggiore coinvolgimento dei cittadini nel processo di rigenerazione della nostra città. Dal canto suo, la scelta strategica della privatizzazione dovrebbe condurre a un sostanziale salto di produttività, consentendo l’offerta di servizi migliori per residenti e turisti.

Ma se l’impostazione strategica su questi due punti può apparire condivisibile in teoria e suscitare ampi consensi sul piano dei principi di buona amministrazione, non è altrettanto facile tradurla in pratica per un insieme di ragioni. 

La prima è la resistenza nei confronti delle innovazioni, soprattutto quando coinvolgono questioni di potere personale e di ruoli, la seconda è la carenza strutturale e gestionale di organismi in passato marginalizzati e la terza è il problema dei tempi e delle risorse da destinare al processo innovativo.

Si tratta, in conclusione, di concepire un progetto ambizioso (Piano di legislatura), sulla base di una leadership adeguata ai tempi e necessaria per cambiare il volto della città, progetto che però non potrà dare subito frutti e che dovrà conciliarsi con le ottiche di breve periodo, comuni invece nel mondo politico. Avere per i prossimi cinque anni un Sindaco e una Giunta dotati non solo di elevate competenze, ma soprattutto abituati ad inquadrare i problemi secondo logiche strategiche, configura senza alcun dubbio un vantaggio competitivo assolutamente da non sprecare.

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