Il virus arretra, avanzano i rifiuti

di Antonio Menna
Mercoledì 1 Luglio 2020, 00:00 - Ultimo agg. 07:00
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È tornata la spazzatura per strada, evviva. Ora sì che è finito il grande gelo della vita sospesa. Addio lockdown, i nipoti tornano ad abbracciare i nonni, i fidanzati vanno di nuovo a cena fuori, i figli che studiano al nord si fanno rivedere a casa, e la città ritrova – come un vecchio parente sparito per un po’ – i mucchi di spazzatura agli angoli delle strade.

I cestini gettacarte stracolmi che inondano i marciapiedi e impediscono di passeggiare, i bidoni dell’immondizia che traboccano, la spazzatura che viene raccolta a singhiozzo, e la solita, interminabile teoria di spiegazioni burocratiche, spiegazioni che non spiegano, spiegazioni che elencano cause ma non dicono mai perché non si può fare diversamente, perché solo qui non si può fare di più. Son tornati perfino i materassi e le lavatrici dismesse e abbandonate per strada, come se ci fosse una sorta di grande attrazione per il perimetro urbano di Napoli: ci devono venire apposta e si scelgono il posto, devono avere una inebriante sensazione di impunità per scaricare un rifiuto ingombrante al centro esatto della città. Tornano a fare capolino anche i gabbiani, che avevano ritrovato la via del mare, e puntano perfino le blatte, così grosse da essere avvistate, con duelli orripilanti che nemmeno su Quark. 

Il virus arretra, la vita riprende e Napoli torna al suo immutabile punto di partenza. Quell’impasto nervoso di bellezza e degrado, di storia e abbandono, di magia e disservizio, di stupore e rabbia che sopravvive a tutto: supera le epidemie come le guerre, i blocchi e le carestie, le quarantene, e si ripresenta immutabile e uguale a se stessa, come in un romanzo distopico dove si torna sempre alla casella iniziale. 

Dov’eravamo rimasti? La metropolitana lasciava i pendolari a piedi nelle gallerie, costringendoli a farsela a piedi. Dopo i mesi di lockdown, torna anche questo. La funicolare di Mergellina chiude per l’estate, come se Napoli non fosse una città turistica. È un ritorno al passato pure questo. Rifiuti, buche stradale, trasporti in tilt, degrado urbano: deve essere uscita la carta del torna al via, in questo gioco dell’oca dell’immobilismo. E poi c’è il mare, che sta sempre là, come cantava Pino Daniele. Ci eravamo incantati a vederlo limpido come non mai, durante il lockdown. Sembra la Sardegna, si urlava da Posillipo. Trasparenze, colori, fondali mozzafiato.

Qualcuno più audace si era spinto a ipotizzare vendette della natura: il virus che fa giustizia e il mondo che si rigenera. Ma è bastato veramente poco per tornare a specchiarci nella melma. Un paio di domeniche di giugno, olio combustibile dalle barche, rifiuti e cartacce, scarichi industriali abusivi, smog, e anche il mare è tornato quello di prima. Non è passato neppure molto tempo. Poco più di due mesi fa provavamo a cucinarci le pastiere in casa. Ai pasticceri era vietato vendere dolci, ai pizzaioli inibita perfino la consegna a casa.

Sono bastate poche settimane di vita comune, perfino a regime ancora ridotto, con scuole chiuse, e senza turisti, per far riesplodere tutti i bubboni. Servizi mai messi a regime. Un controllo del territorio che non fa mai padrona la legge dello Stato ma quella dell’occasione. Si riaprono tutte insieme le pustole di una città che si tocca continuamente le ferite e non le fa sanare. Una città senza cura e senza cure, una malata perpetua su cui il lungo lockdown ha sperimentato solo una terapia compassionevole. Un palliativo di sollievo, che ha ripulito le strade, fatto splendere il mare, riorganizzato la vita, aperti gli spazi per poi risentire il dolore terminale. Napoli chiusa alla vita sembra l’unico modo per tenerla al riparo. Come un oggetto prezioso da non utilizzare. Ma che città è quella che per essere vivibile deve essere immobile? Una città di contemplazione, una bomboniera nel cellophane. Se la rimetti in moto, è finita.


 
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