San Carlo, che confusione l'opera senza narrazione

di Stefano Valanzuolo
Domenica 28 Febbraio 2021, 00:00 - Ultimo agg. 00:03
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L’opinione diffusa per cui, al riparo dei propri palchi, gli spettatori del teatro di una volta giocassero a dadi o consumassero pasti durante i recitativi dell’opera, salvo poi ritrovare interesse e attenzione al cospetto di arie e pezzi d’assieme, è soprattutto pittoresca, in gran parte confutabile. Se così non fosse, si stenterebbe a capire perché mai fior di compositori si affannassero a curare la sezione del parlato melodico (intonazione, metrica, accompagnamento, ritmo) per poi vederlo derubricato al rango di optional.

Sappiamo - è vero - come nella fase di confezionamento dei recitativi, intervenissero, talora, ghost writers d’occasione (e questo vale almeno per i recitativi secchi del “Il turco in Italia”), ma non vi è dubbio che al risultato finale soprintendesse l’autore, senza contare che l’esercizio di scrittura rientrava in un sano e costruttivo rapporto didattico, dunque formativo, attuato tra il maestro e i propri collaboratori più dotati e in una prassi, rispettabilissima, di alto artigianato. Qualunque sia il caso, non sta a noi rimettere in discussione quanto la Storia abbia già certificato.

Come ben sa il pubblico addentro alle cose dell’opera, è nei recitativi che crescono senso e sviluppo della vicenda esposta, laddove arie e pezzi d’assieme lasciano spazio, sotto il profilo strettamente drammaturgico, a divagazioni e riflessioni che sono funzionali - si capisce – alla riuscita musicale del lavoro, ma non alla coerenza né alla fluidità del racconto teatrale. La conseguenza di ciò è che privare dei primi un’opera, tanto più italiana e dell’Ottocento (dunque, narrativamente densa), rischia di configurarsi come operazione arbitraria o, semplicemente, sbagliata.

Per effetto di tagli studiati e per ragioni che Rossini, la musica e la ragione non conoscono, nella versione de «Il turco in Italia» che il San Carlo manderà in streaming, a partire dal prossimo 19 marzo (lo spettacolo è stato registrato ieri, in teatro), i recitativi non ci saranno. Eliminati, come confermava pochi giorni fa, in un’intervista al nostro giornale, anche il direttore d’orchestra Carlo Montanaro. Forse, per il desiderio di compattare la narrazione entro tempi “televisivamente” più comodi (anche se, a rigor di cronometro, non si guadagna granché); o per provare a compiacere un pubblico creduto (quasi sempre a torto) allergico alle antiche affascinanti regole dell’opera... Solo che qui non è come ridurre una partita di calcio in sintesi, saltando tiki taka irrilevanti e i quindici minuti d’intervallo, ma, semmai, come mostrare la battuta di un calcio di rigore senza far vedere il fallo che l’abbia originato.

Gli esiti senza i presupposti. E la scelta, allora, diventa per certi versi poco sensata, difficilmente decifrabile.

Cinque mesi fa, il San Carlo aveva soppresso i recitativi del “Flauto magico” mozartiano in un’edizione con pubblico in sala e l’obbligo di gestire entrate e uscite di scena, oltre che i tempi complessivi dell’operazione. Con Mozart, spesso, è la convinzione che i parlati, in tedesco, siano di non comune accessibilità a sostenere sovente il ricorso alle forbici. La qual cosa, in epoca dilagante di sopratitoli, può non ergersi ad alibi impeccabile (per tacere delle molte traduzioni in italiano disponibili all’uopo). Comunque, sedotti dal miraggio gorgheggiante della Regina della Notte, ci si rassegna fatalmente alla rinuncia; e perché mai Papageno abbia la bocca chiusa da un lucchetto resta, in mancanza di testo, un mistero glorioso.

Stavolta, però, è il Rossini comico a fare a meno dei recitativi, senza neppure la scusa della lingua e col rischio, persino più scabroso, di uscirne dimezzato. Specialmente a Napoli.
Motivo per cui sarebbe giusto, allora, presentare il prossimo appuntamento della stagione sancarliana nei termini di proposta alternativa tratta da “Il turco in Italia”, che è cosa diversa dall’opera propriamente detta. Una selezione, insomma, di arie e pezzi d’assieme, come in un disco di highlights. Col vantaggio, per il pubblico, di non dover neppure mettere mano al telecomando per saltare di netto quei noiosi recitativi. Ciò aiuterebbe a non dimenticare come lo sfoggio virtuoso dei cantanti sia parte fondante del gioco teatrale ma non ne esaurisca il senso, che trae forza da equilibri assai sottili - invece - e non solo dagli exploit più spessi.
Immaginiamo che alla base di iniziative del genere viva l’esigenza legittima di attrarre un pubblico inevitabilmente disorientato dalla lontananza imposta dalla vicenda pandemica; ma è sulla forma - in questi casi - che sarebbe logico intervenire (le modalità di ripresa, la regia televisiva, la presentazione del prodotto…) più che su una sostanza rappresentata, appunto, dalla struttura intangibile dell’opera. Il rischio cui espone la dimensione incompleta della rilettura è di deludere le attese di una parte di pubblico militante (consapevolmente a disagio, speriamo) ma, allo stesso tempo, di fornire alle nuove schiere di fruitori un’idea fuorviante del prodotto musicale e teatrale. Tutto, o quasi, è lecito in arte. A patto di dichiararlo, però; nel rispetto del pubblico, dei contenuti, della verità storica. 
 

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