San Carlo, perché serve una strategia dell'offerta

di Stefano Valanzuolo
Mercoledì 29 Gennaio 2020, 00:00
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Giustamente ci si sofferma, in un periodo di cambiamenti al vertice, sulle novità che riguarderanno lo staff del San Carlo, quasi tutte annunciate. La riflessione riguarda, si capisce, nomi e persone, poiché attraverso di essi diventa possibile immaginare il tipo di offerta artistica destinato a riempire le stagioni a venire. Ciò muove, evidentemente, l’attenzione di una buona parte di audience che di volti e titoli (più volti che titoli) si alimenta.

Eppure, nel momento storico che attraversiamo, sarebbe del pari necessario dedicare attenzione al fattore «domanda» (oltre che ragionare sull’offerta), provando - per esempio - a dare forma e fisionomia compiute ad un pubblico che, negli anni, è chiaramente cambiato, oltre che per consistenza numerica, anche per composizione. 

In generale - e non si sta certamente parlando solo del San Carlo, citato come riferimento cittadino più illustre - gli elementi intorno ai quali si tari la proposta artistica appaiono vari e, quasi sempre, ineludibili: il budget, il grado di spendibilità mediatica degli ospiti, la portata popolare dei contenuti (sempre da equilibrare, in fretta, con un pizzico di audacia vera o presunta), la consistenza delle agenzie, che concorrono al casting supportando la creatività dei manager. Il pubblico, nella messa a punto di questa strategia, c’entra marginalmente, laddove sarebbe invece interessante conoscerne a fondo la composizione, le aspettative, la capacità di spesa, le lacune, le potenzialità di crescita. Non solo le abitudini. 

Una militanza non piccola nel settore ci induce a credere che - anche per ragioni anagrafiche - si siano pressoché estinte certe categorie di spettatori specializzati, con preferenze a compartimenti stagni, sostituite da un’entità «pubblico» trasversale.

Fatta di persone genericamente disposte a spendere (neppure troppo poco) in cultura. La quale osservazione renderebbe plausibile e, anzi, auspicabile il ricorso a progetti che si muovano in tal senso. Questo non è un invito ad abbattere le famigerate barriere tra stili e linguaggi, ché anzi a volte andrebbero rinsaldate, ma a sacrificare una quota di integralismo che, in qualche ambito performativo, risulta opprimente. I teatri, più delle istituzioni musicali, sembrano aver recepito questo cambio di passo, adeguandosi. 

A lungo, negli anni Settanta, il rispetto nei confronti del pubblico si è espresso attraverso un meccanismo di coinvolgimento scriteriato di cui è retaggio, oggi, la tendenza ad allestire, qua e là, concerti o spettacoli con partecipazione gratuita. Una mossa del genere ha avuto all’epoca un senso forte in ottica politica, può averlo ancora in termini di comunicazione e lancio di una proposta, non ne ha alcuno, non più, sul piano formativo, laddove non contribuisca a creare una vera consapevolezza da parte del fruitore. 

Altri, semmai, potrebbero essere le modalità attraverso cui venire incontro al pubblico, che resta il punto di riferimento primario di ogni attività culturale e performativa per vocazione e coerenza, se non per peso economico, considerato quanto poco incida il botteghino sulla salute di un teatro o di un festival importanti. 

Ci piacerebbe che la massa di fruitori smettesse di apparire indistinta agli occhi di chi, per ruolo, le si rivolge. Ci piacerebbe che non esistessero programmazioni culturali capaci di prescindere dalla conoscenza dei luoghi e delle persone che le accolgano. Ci piacerebbe che nascesse, intorno alla musica, un vero dibattito, a che sulla stampa, ben oltre la dimensione glamour celebrata a discapito, spesso, della sostanza artistica. Ci piacerebbe, infine, che esistesse una strategia di offerta musicale sviluppata in chiave almeno cittadina o regionale, tenuto conto di come il pubblico - ormai - sia uno solo e tirarlo per la giacca con proposte concomitanti e spesso contrastanti non giova a nessuno. 

Che l’offerta dipenda dalla domanda è principio economico ovvio. Ma, in questo gioco reciproco di dare e avere, uno dei due fattori essenziali, il pubblico appunto, potrebbe smarrire in parte energia e curiosità, dopo aver subito una proposta troppo a lungo finalizzata solo a compiacere un modello di gusto ormai, forse, fuori tempo. 
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