La politica che serve ​per la nuova idea di città

di Michelangelo Russo
Giovedì 21 Maggio 2020, 00:00
4 Minuti di Lettura
Rem Koolhaas, famoso architetto e geniale visionario della contemporaneità, dichiara alla rivista Time di avere perso la fiducia che l’architettura possa, da sola, risolvere tutti i problemi, e di fatto sancisce la mutazione del ruolo degli architetti che – a suo avviso – oggi devono intendersi quali studiosi e “catalizzatori” dei comportamenti umani e dei loro potenziali cambiamenti. 

Un’affermazione che sollecita una riflessione sulla natura stessa di un’idea di città e sul contributo che possono dare gli architetti per renderla concreta, lavorando non solo sugli aspetti del visibile (“una città più bella”), ma anche sulla possibilità di rendere la città più abitabile, luogo di inclusione e di opportunità (“una città più giusta”) basata sulla coesione della società e sul suo sviluppo. 
Probabilmente il ritardo dell’urbanistica e dell’architettura contemporanea a Napoli sconta la storica debolezza nel formulare un’idea di città capace di saldare spazio e società, nel prefigurare cioè condizioni socioeconomiche connesse al rinnovamento delle strutture urbane, paesaggistiche e ambientali di un territorio fragile. 

Occorre un progetto politico dunque, prima ancora che urbanistico, capace di orientare traiettorie sociali ed economiche. La pianificazione infatti, dovrebbe sempre partire da un’idea di città, come visione di riferimento per strategie e progetti in grado di dare senso alla trasformazione possibile, connessa ai luoghi, alle comunità, ai comportamenti, agli stili di vita. Un’idea per Napoli rivolta al futuro dunque, non può limitarsi alla pur necessaria “estetica del contemporaneo”: deve produrre piuttosto un modello di sviluppo capace di trovare nello spazio il suo catalizzatore. 

Napoli ha un’alta percentuale di suoli, di spazi e di edifici abbandonati, da rivitalizzare e da rigenerare, dal waterfront all’area portuale fino alle periferie, verso i bordi del periurbano nell’area metropolitana allargata. Tuttavia, un rinnovamento esclusivamente incentrato sulla trasformazione dello spazio fisico da solo non basta e forse non sarebbe neanche realizzabile.

Rigenerare vuol dire lavorare nel palinsesto della città, unico nei suoi valori di storia, di ecologia, di paesaggio, ma significa anche limitare marginalità e diseguaglianze, ovvero incrementare i livelli di benessere delle persone. È una rigenerazione intesa come pratica complessa e multidimensionale capace di tenere insieme i valori della storia con quelli ambientali, economici e sociali, come motore di produzione e di ricerca.
L’idea di Napoli come laboratorio della contemporaneità pone al centro il territorio come campo innovativo di studio e di sperimentazione. Rinnovare lo spazio fisico della città è una prospettiva che può fondarsi su attività che assumono il territorio come oggetto di studio e di ricerca, oltre gli usi convenzionali collegati al turismo, alla valorizzazione e al consumo dell’identità locale. 

La trasformazione del territorio non va considerata come vettore di crescita economica assoluta, a sé stante o settoriale (“Regno del Possibile” e “Neo-Napoli” sono fantasmi del passato da cui tenersi alla larga), quanto piuttosto come l’ingrediente essenziale di un modello di sviluppo plurale incentrato su competenze, ricerca e innovazione produttiva in chiave ecologica: cioè come precondizione di un’idea stessa di sviluppo. 
Ciò vuol dire che sviluppo e rigenerazione vanno progettati insieme e non individuano una mera sequenza di opere pubbliche: una prospettiva superata, insufficiente e insostenibile, soprattutto in questo tempo di crisi.
Una nuova alleanza tra ricerca, formazione, produzione innovativa e rigenerazione urbana, rappresenta l’unica via possibile al cambiamento. Un’alleanza che consentirebbe di far transitare Napoli nella contemporaneità, sia dal punto di vista dell’architettura della città che del rinnovamento di un’economia capace di valorizzare le risorse locali, moltiplicando le occasioni per trattenere le straordinarie intelligenze dei giovani che vivono e si formano nelle nostre Università, nei nostri centri di ricerca.

Il passaggio è molto stretto e richiede un grande investimento politico sul laboratorio Napoli.
Ad est come ad ovest, un esteso mosaico frammentato di spazi aperti, porosi e ricchi di risorse eco-sistemiche, brandelli di paesaggio rurale, possono diventare il tessuto di un formidabile sistema a rete di spazi aperti pubblici e per l’agricoltura urbana, riequilibrando le dotazioni territoriali per la vita all’aperto, per il tempo libero, per un nuovo welfare materiale. Le strutture dell’industria novecentesca e i territori urbani “di scarto”, rigenerati e riciclati attraverso la pratica del “costruire nel costruito”, dispiegano uno straordinario potenziale per insediare – a consumo di suolo zero – nuove residenze ecologiche, strutture di ricerca e aziende innovative ad alta tecnologia. L’esperienza della Apple Developer Academy a San Giovanni a Teduccio con il sostegno dell’Università Federico II, è paradigmatica nel mostrare come a Napoli esistano risorse auto-rigenerative: umane, tecnologiche, urbane e ambientali. 

La trasformazione dello spazio fisico in chiave ecologica sostituisce la tradizionale crescita espansiva per una rigenerazione che si alimenti del coinvolgimento delle comunità locali verso un’idea di città basata su un rinnovato concetto di benessere.
È vero, l’architettura non può da sola risolvere tutti i problemi, ma può costruire le condizioni per farlo. 
Una nuova idea di città deve considerare lo spazio come medium tra rigenerazione e sviluppo, dal valore altamente politico, capace di creare coesione intorno a una nozione dinamica di bene comune: un’idea in fieri non retorica né scontata, da costruire entro un patto di innovazione che parta dallo spazio e dal territorio, per indirizzare i comportamenti umani e il loro possibile cambiamento. 

© RIPRODUZIONE RISERVATA