Se le pietre d'inciampo inciampano sul decoro

di Piero Sorrentino
Lunedì 18 Gennaio 2021, 00:00
4 Minuti di Lettura

«Alla manutenzione, l’Italia preferisce l’inaugurazione». È questa amarissima rasoiata intellettuale di Leo Longanesi che mi torna in mente passeggiando nei pressi di piazza Bovio e sostando accanto alle pietre d’inciampo installate esattamente un anno fa, all’altezza del civico 33, per commemorare le vittime cittadine della Shoah: Amedeo, Aldo, Paolo ed Elda Procaccia, Iole Benedetti, Milena Modigliani, Loris e Luciana Pacifici, Oreste Sergio Molco. Tutti membri della comunità ebraica di Napoli, costretti dall’infamia delle leggi razziali ad abbandonare le proprie case per trovare salvezza altrove. Tutti arrestati, e poi deportati nel gennaio del 1944 su uno dei tantissimi treni della morte ad Auschwitz, il più noto dei campi dell’orrore nazista del quale, giusto ieri, ricorreva l’anniversario dell’inizio dell’evacuazione da parte delle SS alla notizia dell’imminente arrivo delle truppe di liberazione sovietiche. 

A poco più di una settimana da un’altra ricorrenza, quella del Giorno della memoria, il prossimo 27 gennaio, torno a piazza Bovio – dove ero stato poco prima di Natale – per guardare ancora una volta le nove targhe in ottone con cui la città, un anno fa, ha voluto ricordare quei suoi nove cittadini morti a causa della barbarie nazifascista. A dicembre avevo trovato le placche metalliche in pessimo stato: sporche, opache, con macchie di sudiciume e con i nomi e le date ai limiti dell’illeggibilità. È vero che tutte le pietre di inciampo che costellano le vie e le piazze delle città si trovano su strade, piazze e marciapiedi, e sono dunque esposte all’usura del tempo e al deterioramento provocato dal passaggio delle persone.

Ma è altrettanto vero che, proprio per questo, i responsabili comunali provvedono regolarmente alla loro manutenzione, inviando del personale che provvede alla pulizia. Dopo la cerimonia napoletana dello scorso anno – che pure s’era trascinata dietro non poche polemiche, a causa di un post scritto su Facebook dall’assessore alla Cultura Eleonora De Majo che attaccava il governo israeliano, post che non era piaciuto alla Comunità ebraica napoletana che aveva scelto di disertare la cerimonia riservandosi una propria celebrazione in una data successiva – non sappiamo quanto, in questi 11 mesi, le targhe siano state curate, ma oggettivamente si trovavano in una condizione irricevibile.

Avevo, per questo, utilizzato il mio account Twitter per segnalare, con tanto di fotografie che trovate anche qui sul giornale, la condizione dei cubetti della Memoria. In poche ore, dalla pagina ufficiale del Comune di Napoli era giunto un rassicurante messaggio: «Grazie, segnaliamo subito all’assessore alla Cultura e al Servizio competente».

Bene, mi ero detto, i social servono in fondo anche a questo: a segnalare le cose che non vanno e a informarne i responsabili. Tre settimane dopo sono tornato in piazza per fare l’unica cosa che è necessario fare in casi come questo: tornare a vedere con i propri occhi. E devo confessare un doppio, angosciante sentimento: da un lato la sorpresa, dall’altro la rabbia. 

La sorpresa viene dall’aver trovato le targhe pressoché nelle medesime condizioni del mese precedente. Forse appena più presentabili, ma comunque sempre malmesse. Quell’intervento promesso pubblicamente dal Comune, alla fine, c’è stato oppure no? Chi si trovasse a passare in quella piazza potrà giudicare da sé che cosa è stato fatto e cosa no, se è stato un intervento – sempre che ci sia stato: e qui sarebbe interessante ricevere su questo giornale qualche riga di chiarimento ufficiale da parte dell’Assessore alla Cultura del Comune di Napoli – sufficiente o inaccettabile. Sta di fatto che la pulizia delle pietre di inciampo è un’azione che viene svolta dappertutto con attenzione e regolarità (a Berlino, dove ce ne sono tantissime, è facile imbattersi in operai comunali chini sulle strade con unguenti e panni), e non si vede perché qui da noi dovrebbe essere altrimenti.

Ma assieme alla sorpresa, dicevo, quella seconda visita ha provocato anche rabbia e sconcerto, visto che sulle targhe sono nel frattempo apparsi segni di scalfitture e abrasioni, come se qualcuno avesse tentato di sfregiarle con chiavi, cacciaviti o ferri appuntiti. 
Sul nome di Oreste Sergio Molco compaiono ben tre graffi, così come altri segni macchiano le lettere che ricordano il sacrificio di Luciana Pacifici e di Paolo Procaccia. Che cosa è accaduto? Chi è stato? Per le macchie è possibile incolpare le suole delle scarpe di involontari passanti, ma per le rigature è più difficile, oltre che inquietante, trovare delle spiegazioni, diciamo così, naturali. Come che sia, la Memoria è un orto. Va sempre curato, coltivato, ascoltato. Bisogna innaffiarlo e difenderlo. Niente è dato per sempre: neppure la certezza che il nazifascismo – o forme aggiornate e contemporanee di questo – non tornerà mai più. Le barriere contro questi rischi sono tante, e sono fatte di cose grandi ma anche di piccole. Come non preferire – diceva appunto Longanesi – l’inaugurazione alla manutenzione.
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA