Il valzer dei colori che smorza ​la grande voglia di normalità

di Antonio Menna
Venerdì 8 Gennaio 2021, 00:00
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Due giorni di giallo, dopo due di rosso, dopo l’arancione. Una volta davamo i numeri, adesso diamo i colori. Riecco i tavolini dei bar sui marciapiedi, e la gente finalmente seduta, e i vassoi che volteggiano imperiosi sulle mani dei camerieri.

Basta poco - che ci vuole? -, per tornare a respirare aria di normalità. Per tutta la mattinata ha anche smesso di piovere su Napoli, come se dall’alto dei cieli avessero detto: poverini, e facciamogliela fare una giornata come si deve. Se deve essere giallo, che giallo sia. Ieri e oggi, due permessi premio dentro questo incubo (peraltro necessario, visti i numeri del contagio) di chiusure, aperture, autocertificazioni, due in macchina, tre a piedi, e beato chi si ricorda tutte le regole (come se poi qualcuno controllasse davvero…). Poi domani si torna arancioni, sperando di non sprofondare rossi, anelando al bianco perpetuo di fine pandemia. 

Riesplode, intanto, tutta quanta all’improvviso, la voglia di normalità in città, nelle piazze del centro, nei viali pedonali del Vomero. Bar aperti. Un caffè al tavolo, un aperitivo ma presto, che all’imbrunire comunque si smonta tutto. Tanta voglia di fare le cose di sempre, che poi sono quelle semplici, minime, di tutti i giorni. Sedersi cinque minuti, respirare, guardare la vita passare. 

È proprio vero che devi perderle, le cose, per capirne l’importanza. Quanto ci è mancato questo caffè seduti al tavolino sul marciapiede, anche senza vista mare, anche con vista cassonetto o marmitta scatarrante nel traffico? Quanto ci è mancata la tazzina di ceramica bollente, il bicchiere d’acqua, il bancone del barista? E la pizza fumante servita al tavolo, che si sa, te la possono pure portare a casa, ma mangiata in pizzeria è un’altra cosa? Tutto quello che ad altre regioni è stato concesso di più e più a lungo (a Roma si è fatto tutto fino a prima di Natale), in Campania, a Napoli, è diventata una lunghissima crisi di astinenza. E due giorni di libertà vanno goduti fino in fondo.

Ma la normalità, forse ancor di più in una città come Napoli che adora sentirsi sopra l’ordinario, ha un suo dolore.

Mica è facile, la normalità. È organizzazione, ordine, catena, sacrificio. Capita così che ristoranti e pizzerie, in particolare, non riescano proprio ad aprire. Due giorni premio? No, grazie. Che me ne faccio della libertà se non mi consenti di riempirla di progetto? E allora si capisce che, forse, ne ha più bisogno la persona che l’economia; più la mente che la tasca. Perché, invece, l’impresa si nutre di orizzonti, e non di attimi. Puoi dire a un bar di aprire all’improvviso e per poco: magari riesce ad avviarti una macchina del caffè e a farti un cappuccino. Apre per aprire, per sentirsi vivo, non certo per il denaro. Ma è già più difficile dirlo a un ristorante, che deve riempire la dispensa, deve preparare il menù, pre-allestire i cibi, riordinare e poi strutturare una sala, una continuità nella proposta. Nemmeno nella cucina di casa, puoi metterti ai fornelli da un’ora all’altra. Figuriamoci nei ristoranti, nelle trattorie, nei pub, soprattutto se poi gli dai il coprifuoco serale e la chiusura anticipata.

Così, i due giorni di giallo si tingono comunque di rosso per l’incapacità di capire che non si può saltare da un colore all’altro così, come fosse una roulette. E che anche la normalità, tanto desiderata, non viene goduta se non c’è uno sguardo sul domani. Alla fine, Napoli del giallo, passato lo sfizio mattutino di qualche colazione al bar, o di un caffè con un amico o un parente, non ha saputo che farsene. La voglia di normalità, in una città che stava imparando a costruire un piccolo sistema economico sul turismo, è tale se ha il respiro medio-lungo della programmazione. Meglio chiudere tutto per un lungo periodo, e poi riaprire tutto per un lungo periodo, invece che questo assurdo singhiozzo tra un colore all’altro, che tinge alla fine tutto di grigio. Il colore stanco dell’attesa. Un progetto, non il gioco dell’oca: questo chiedono gli operatori. Mentre sulle bocche di tutti si sussurra l’unica, vera, domanda di senso: ma quando finisce tutto questo?
 

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