Per tanti, in Campania, Giorgio Napolitano è stato il “presidente” molto prima che diventasse capo dello Stato, avendo guidato a partire dal 1981 il gruppo dei deputati Pci. Un riformista della prima ora che non ha mai perso di vista la regione e soprattutto Napoli, la sua città.
Gli appuntamenti per mangiare una pizza in una trattoria di via Santa Lucia, solitamente il sabato a ora pranzo, quando “scendeva” da Roma, sono state per anni un appuntamento fisso per coloro a lui sono stati politicamente più vicini, l’occasione per fare il punto sulle questioni locali, parlare della Regione e degli equilibri interni prima al Partito comunista, e poi al Pds-Ds.
Discorsi dalla latitudine dell’opposizione fino a quando, a partire dagli anni Novanta, gli ex comunisti non sono andati al potere, a cominciare dal Comune di Napoli con l’elezione di Antonio Bassolino.
Ugualmente Napolitano non ha mai fatto mancare il suo punto di vista critico su alcune scelte e spingeva affinché la politica si mostrasse sempre più con il volto della concretezza.
Tanti lo ricordano, a Napoli e in Campania, prima nelle piazze e palchi dei comizi, poi nei diversi ruoli istituzionali ricoperti, a cominciare da quello di presidente della Camera. Solidissimo il legame con il Mattino, la sua ultima intervista, che non aveva potuto concedere dal Quirinale, è stata pubblicata l’11 giugno del 2016, nelle vesti di presidente emerito.
Appuntamento in mattinata nella hall di un hotel del Lungomare, era rimasto il “solito” Napolitano, come quello che nella pizzeria di Santa Lucia spaziava dalla politica estera, di cui è sempre stato uno dei massimi conoscitori, agli equilibri del governo, le prospettive del partito, per poi chiedere: «Ma alla Regione come va? E al Comune di Napoli quell’assessore l’hanno nominato?» O rivolto ai compagni del partito si informava del numero delle tessere sottoscritte e di come era andato qualche dibattito svoltosi nei giorni precedenti tra San Giovanni o Ponticelli.
Una visione globale, come in quell’ultima intervista in cui avvertiva come la vocazione mediterranea dell’Italia dovesse restare «una costante molto significativa nella propria collocazione internazionale e della sua politica estera: il rapporto con il mondo arabo – diceva - compreso l’impegno per la pace tra Israele e palestinesi. Questo è stato sempre un punto fermo, - avvertiva - pur nel variare dei governi, ma dobbiamo dare nuovi sviluppi a questo nostro ruolo».
Un attimo dopo Napoli e la criminalità organizzata «aggressiva e devastante, una spaventosa palla al piede del progresso civile e del rilancio del ruolo di Napoli. Vorrei esprimere – aggiungeva – il mio forte apprezzamento per l’impegno delle autorità e delle forze dell’ordine in campo per l’impresa difficile e oltremodo rischiosa del tutelare la vivibilità di questa grande città.
Naturalmente un qualsiasi sostanziale allargamento delle possibilità di occupazione e di crescita dell’area napoletana ridurrebbe i margini per la criminalità organizzata, sottrarrebbe alla sua influenza perversa strati di giovani che cadono disperatamente, se così la vogliamo chiamare, nell’ideologia della violenza.
Tenendomi lontano da vicende politiche napoletane che non sono più in grado di seguire e che faccio anche molta fatica a comprendere e a valutare, posso solo dire che, nel sollecitare l’impegno dei poteri pubblici a livello nazionale per la ripresa economica, sociale e civile di Napoli, è indispensabile che anche i napoletani facciano la loro parte. È decisivo che le energie più vive e operose del mondo della cultura, delle imprese, della tecnica, potenzialità creative come quelle delle start-up giovanili, siano attivamente in campo».
Una lunga intervista, la prima, tra molte, alla quale diede il via libera senza apportare modifiche alle sue frasi riportate: «Un po’ per fiducia e un po’ perché sono più anziano rispetto all’epoca in cui chiamavi fin troppo spesso… »
Faticose ma indimenticabili le serate trascorse al telefono per sostituire un aggettivo, aggiungere una virgola, limare un periodo. Chiedersi, e chiedere, se quel concetto risultasse abbastanza chiaro».
Non sempre amato, soprattutto nel breve mandato bis, a Napolitano tutti hanno sempre riconosciuto di essere un “gentiluomo” della politica, un intellettuale profondamente radicato nella propria cultura ma pronto a riflettere, interrogarsi, capire le ragioni degli avversari e criticare anche gli uomini del suo stesso partito. Come nel 1998 quando l’ex presidente della Repubblica è ministro dell’Interno e il suo compagno di partito, Bassolino, governa la Regione. In un solo anno 116 omicidi, ma si punta a minimizzare nonostante sia in atto una carneficina all’interno dei clan che facevano parte dell’Alleanza di Secondigliano. Provvede il ministro dell’Interno a dare la sveglia a chi gestisce le istituzioni locali: «E’ in atto una guerra di camorra», dice.
Scena che si ripete otto anni dopo, sempre con il centrosinistra che governa Napoli e la Regione, quando Napolitano è già capo dello Stato. Nella sua prima visita ufficiale va prima in prefettura e poi si reca in forma privata a casa di Valenzi, l’amico di sempre, lo storico “sindaco rosso”. In piazza del Plebiscito, tra la folla festante, sussurra poche parole: «Ci vediamo da Maurizio…» E nell’androne del palazzo di via Manzoni, ai pochi giornalisti che l’hanno seguito sulla collina di Posillipo, dice: «Questa città è al bivio, il suo volto va cambiato. Occorre un pesante investimento di fiducia da parte delle classi dirigenti nazionali e dello Stato, ma nello stesso tempo è indispensabile non sottovalutare le pesanti criticità e affrontarle».
Una città oggi ostaggio delle babygang, mentre la camorra fa “grandi affari”. All’indomani della morte di Giogiò, ucciso senza un perché, forse è giunto il momento di ascoltare le parole del Presidente.
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