In questi giorni di ricordi e ragionamenti sulla statura politica di Giorgio Napolitano, mi piace aggiungermi sommessamente con alcuni ricordi di carattere privato, indelebili e preziosi. Ricordi lievi.
Fu come un ragazzo che Giorgio Napolitano si presentò a Venezia nel 1992, quando lo conobbi. Era in concorso al Festival il mio primo film Morte di un matematico napoletano ispirato a Renato Caccioppoli, e lui si precipitò a vederlo. Era allora Presidente della Camera, e gli uomini della scorta sembravano attorno a lui uno sciame costretto a inseguire la preda che si muoveva libera e incurante. Intendiamoci, elegante com’era, e rispettosissimo di tutte le forme e le regole imposte dal suo ruolo, non faceva nulla di sbagliato, ma era chiaro che Napolitano era lì solo perché voleva vedere il film e parlarne con noi. E non dall’alto delle sue conoscenze del periodo storico e delle sue scelte politiche, ma problematicamente, con la passione di un ragazzo.
Caccioppoli era stato una figura emblematica della crisi che attraversò il mondo comunista all’indomani del ’56, e lo era stato a Napoli, dove Napolitano era nato e si era formato. Quel passato riviveva nella nostra conversazione come se tutti noi, Caccioppoli, Napolitano, Fabrizia Ramondino, Carlo Cecchi, Anna Bonaiuto, Toni Servillo, Renato Carpentieri fossimo nella stessa temperie e non separati da più generazioni. Perché quella crisi investiva anche gli anni ’90 e investe ancora anche i nostri anni, era questo che rendeva urgente e viva la conversazione.
Ci siamo rincontrati qualche anno dopo, quando non aveva incarichi istituzionali, a una premiazione, e la conversazione con lui riprese immediatamente con una freschezza sorprendente, così che la serata, ingessata come lo sono tutte le premiazioni, si sciolse in un’atmosfera di intimità e di allegria. Quella sera conobbi sua moglie Clio, e a questo punto devo dire la ragazza Clio, perché anche lei aveva la stessa attitudine passionale, oltre a essere straordinariamente spiritosa.
Tante volte li ho visti a teatro, non solo quando venivano a vedere i miei spettacoli, ma anche come spettatori curiosi di tanto altro. Napolitano aveva fatto l’attore da giovane, aveva coltivato aspirazioni artistiche, e come poteva essere altrimenti avendo come compagni Francesco Rosi, Peppino Patroni Griffi, Raffaele La Capria? Ma evidentemente cultura e politica erano per quella generazione la stessa cosa, l’una nutriva l’altra, rami di uno stesso albero, tutto era intrecciato.
Ascoltarlo era sempre straordinariamente interessante, la sua visione delle cose era ampia, e proprio in virtù di quei rami. Nel 2011 ero direttore del Teatro di Torino ed era lì che si sarebbero aperte le celebrazioni del centocinquantenario dell’Unità d’Italia alla presenza del Presidente della Repubblica, che adesso era Giorgio Napolitano. Per l’occasione realizzai al Teatro Gobetti un adattamento delle Operette morali di Leopardi, con un allestimento a pianta centrale in cui gli spettatori circondavano una platea di terra. Poiché lo spettacolo era piuttosto lungo, su indicazione del cerimoniale, realizzammo per la serata col Presidente una versione abbreviata. Ma alla fine della recita, dopo aver cantato tutti insieme commossi, con i piedi nella terra, l’inno di Mameli che proprio lì al Gobetti era stato eseguito la prima volta, Giorgio e Clio protestarono: ma perché non ci avete fatto vedere lo spettacolo intero! E tornarono a vederlo a Roma.
E che dire della cerimonia di consegna della pergamena di commendatore? Il presidente mi aveva voluto onorare con questo titolo, ma si era nel tempo della sua concitata rielezione, tutto traballava. Dunque venne a teatro una sera in cui si dava La serata a Colono di Elsa Morante con la mia regia, sapeva che io c’ero e mi cercò alla fine dello spettacolo, ma io ero perso non so dove. Qualcuno mi dice: ti cerca il Presidente! Lo raggiungo all’esterno, era già a Largo Argentina, Clio fumava l’immancabile sigaretta -Ti stavo cercando!- mi fa sorridendo, e mi allunga l’onorificenza che teneva sotto al braccio.
Alla festa per i novant’anni di La Capria, sul magnifico terrazzo romano di Dudù, un lembo della sua giacca, sfiorando una delle piccole torce sui tavoli, improvvisamente prese fuoco. Figuratevi lo spavento, e lo sciame delle guardie del corpo allarmantissime, era il Presidente della Repubblica! Non fece una piega, si tolse la giacca e proseguì la conversazione senza mai smettere di guardare l’interlocutore come se nulla fosse, un aplomb dal quale c’è tutto da imparare. “Meno male che la giacca era di seta” fu il suo unico ironico commento. Ma poteva mai essere di acrilico?
Giorgio Napolitano era una persona elegante ed è stato sin da giovane un politico acutissimo, la cui compostezza derivava da una grande serietà (e che bella cosa era quella serietà), ma forse non sarebbe stato il grande uomo che è stato se non avesse mantenuto dentro sé stesso il ragazzo appassionato che non ha mai smesso di essere.
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