Non basta indignarsi
per rifare un ponte

di Massimo Adinolfi
Giovedì 20 Settembre 2018, 22:50
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È vero, il crollo del ponte Morandi non era ancora avvenuto al tempo del contratto di governo. E dunque lì non si legge nulla al riguardo. Alla voce trasporti si parla di porti, di intermodalità, di linee ferroviarie regionali e, naturalmente, del Tav, «da rivedere integralmente». Su ponti e autostrade, manutenzioni e nazionalizzazioni, non c’è nulla. 
Ma è un buon motivo perché la situazione, a un mese dal tragico evento, rimanga così confusa? Il ministro Toninelli ha annunciato a gran voce un piano infrastrutturale «di portata eccezionale, senza limiti di spesa, fuori dai vincoli Ue» pronto per finire nella ormai imminente Legge di Bilancio. Ma, nel frattempo, alzi la mano chi ha certezze su come andrà questa storia. Il ministro e i suoi colleghi di governo – primo fra tutti Di Maio – giurano e spergiurano che non sarà Autostrade per l’Italia a rifare il ponte: questo, però, è l’unico punto che rimane stabilito. Su tutto il resto, l’incertezza regna sovrana. Per dare una scossa, il governo ha in via di perfezionamento un decreto, che dovrebbe dare larghissimi poteri al futuro commissario. Il cui nome, però, il premier Conte cercava invano tra i fogli che aveva davanti in conferenza stampa, al momento dell’annuncio. L’accordo, infatti, ancora non c’è.
E dunque: chi abbatte quel che resta del ponte Morandi, e a chi toccherà ricostruire? Quando l’area sarà cantierabile? In che modo si procederà: per affidamenti diretti o magari per gare ristrette? E come si affronterà il prevedibile contenzioso che ne verrà, con Autostrade o con l’Unione Europea? E quanto tempo ci vorrà? E intorno a quale tavolo siederanno i soggetti interessati? L’idea che la politica non può aspettare, enunciata con grande forza già all’indomani della tragedia, quando il Presidente del Consiglio spiegò che non si poteva attendere il verdetto di un tribunale per revocare la concessione alla famiglia Benetton, è sicuramente un tratto distintivo di questo governo. Anche nelle discussioni di questi giorni, su quel che ci sarà o non ci sarà nella legge di bilancio, e se sforare o non sforare e di quanto sforare sul deficit, leghisti e pentastellati (più questi ultimi, in verità) mettono sul tavolo l’argomento della volontà politica, che deve far premio su vincoli comunitari, compatibilità di bilancio, pressioni finanziarie dei mercati. Ci hanno eletto per questo, dicono; siamo al governo per questo, ripetono. Il nocciolo del sovranismo così orgogliosamente riscoperto starebbe qui. E sarebbe pure una buona cosa. Solo che, alla prova dei fatti, il governo rischia di fare l’opposto: invece di far presto, rischia di far tardi. E per voler far meglio, non riesce a far bene. Mettendo avanti a tutto il punto morale dell’indignazione, finisce infatti indietro il punto vero, quello che riguarda il terreno concreto dell’operare del governo e dell’amministrazione. Che deve farsi largo tra leggi, procedure, e, non da ultimo, aprirsi un varco nella realtà del Paese. Bisognerà agire dunque con ampie deroghe, mentre cresceranno inevitabilmente le polemiche (e affileranno le armi gli studi legali).
Ad oggi, quella che è senz’altro dichiarata è l’incrollabile volontà di nazionalizzare il sistema autostradale del Paese. Tutto? In parte? A pezzi? Non si sa. Scelte di questa natura un tempo venivano prese a valle di grandi dibattiti politici e intellettuali. Allo stato, una simile volontà si fa forte solo dello sdegno verso “quelli che c’erano prima”. E va bene. Ma non risulta che sia sostenuta anche da analisi economiche reali di ciò che serve al Paese, né da una verifica tecnico-giuridica sul modo in cui giungere all’obiettivo. L’una e l’altra sono ancora da farsi, e chissà quanto ci vorrà, ma la decisione: quella è già stata presa, sull’onda emotiva seguita al disastro. Così però la volontà politica che ha cavalcato l’onda rimane come sospesa in aria: forte all’apparenza ma fragile nella realtà. I dubbi allora rimangono – sui costi, sui tempi, sulle modalità – e la strada per arrivare alla meta rimane tutta da percorrere. 
D anzi, a proposito di strade: chi l’ha fatta la strada inaugurata l’altrieri per decongestionare Genova, a un mese dalla tragedia? I privati. Anzi: Pavimental, società del gruppo Atlantia-Autostrade per l’Italia. La strada di collegamento col porto, che serviva subito, per togliere i mezzi pesanti dal traffico cittadino e dare un po’ di respiro alla città ora che il ponte Morandi è crollato, è stata fatta da quelli che – secondo Toninelli – non devono mettere «neanche un grano di sabbia» nella ricostruzione del ponte.
Così uno pensa all’ILVA: anche lì, i grillini, animati da furore ideologico, erano partiti con l’idea che bisognasse chiudere tutto e tutto riconvertire; poi Di Maio, più realisticamente, ha per fortuna preso atto di quel che si poteva fare per davvero. E la cosa, almeno lì, si è chiusa. Ma a Genova come si chiuderà?
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