Napoli: manca l'interprete, quarto rinvio per il processo ai bengalesi

Napoli: manca l'interprete, quarto rinvio per il processo ai bengalesi
di Viviana Lanza
Domenica 21 Aprile 2019, 00:00
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Quando ci si addentra nel mondo dei ritardi della giustizia, ci si imbatte in incroci complicati. Non c’è una sola strada, perché non esiste una sola causa. La giustizia rallenta sotto il peso di troppa burocrazia e poche risorse. Affanna, nonostante gli sforzi di magistrati e personale di cancelleria, e nonostante l’impegno dei vertici degli uffici giudiziari per ottimizzare le risorse e snellire la mole di fascicoli. Girando tra le aule del Palazzo di giustizia al centro direzionale, si scopre che i processi vanno a rilento per i motivi più disparati, dalla difficoltà di trovare un interprete alle irregolarità nelle notifiche, dai turnover nei collegi giudicanti e all’ingolfamento in Appello per i troppi procedimenti con detenuti a cui dare la priorità. Insomma il panorama è ampio quando non si aggiunge, come spesso accade nei processi per reati di pubblica amministrazione, il rischio che tutto si dissolva in prescrizione. 
 
È la quarta volta che il processo in Appello subisce un rinvio perché non si riesce a trovare un interprete per gli imputati del Bangladesh sotto accusa. Per dialogare con i difensori, gli imputati fanno riferimento a uno tra loro che comprende e parla l’italiano, ma nel processo serve una figura terza e dalla riconosciuta professionalità e nell’attesa di trovarla sono inevitabili i rinvii. Il processo si celebra davanti alla quinta Appello e ha ad oggetto lo sfruttamento di immigrati nei capannoni dell’hinterland a nord di Napoli, dove si lavorava per commesse nel settore tessile anche fino a 18 ore al giorno e quasi sette giorni su sette. Per l’accusa, c’era dietro un traffico di operai-schiavi, reclutati in Bangladesh dietro il pagamento di 10mila euro e la promessa di un permesso di soggiorno e un lavoro stabile e ben remunerato nelle fabbriche napoletane. Nella realtà, gli immigrati restavano clandestini e diventavano schiavi di un gruppo guidato da un tale Alim Mohammed Sheikh. 

È ancora fermo al palo del secondo grado il processo nato dalla maxi-operazione “Piazza pulita” sui ramificati traffici di droga nel ventre molle della città, quando nei vicoli di Forcella regnava ancora il clan di Giuliano, quello di Loigino e dei suoi fratelli. Parliamo del periodo tra la fine degli anni Novanta e gli inizi del Duemila. Non c’erano ancora le paranze, non esistevano le stese: nei vicoli si spacciava droga e gli affari erano da capogiro. A marzo 2007 ci fu il maxiblitz con quasi duecento arresti. In primo grado gli imputati sono stati quasi tutti condannati, alcuni con l’abbreviato e altri con rito ordinario ma in Appello il processo, istruito dinanzi alla prima sezione, ancora stenta a decollare.

Tra i processi ancora in attesa di una risposta definitiva da parte della giustizia c’è anche quello a Marco Nonno, il consigliere comunale di destra coinvolto nell’inchiesta per la devastazione avvenuta a Pianura quando per giorni si protestò contro l’ipotesi di riaprire la discarica per fronteggiare l’emergenza rifiuti. Era gennaio 2008, da allora sono trascorsi undici anni. Se si considera che la devastazione e il saccheggio, che sono tra i principali reati contestati, si prescrivono in quindici anni, il processo ha ancora vita, nonostante la lunga attesa per la fissazione dell’Appello a ormai cinque anni dalla sentenza di primo grado (datata maggio 2014). L’attesa è ora agli sgoccioli: fissata la sezione (la quinta), si attende solo la data per l’udienza che darà il via al processo di secondo grado. Tra gli imputati finirono anche ultrà del Napoli, accusati di essere stati reclutati per mettere a ferro e fuoco le strade di Pianura. In primo grado fu inoltre riconosciuto il risarcimento del danno a Comune di Napoli, Asìa, Anm e Ministero dell’Interno. 

La sua storia è al centro di tre distinti processi, tutti ancora in corso in primo grado, tutti istruiti tra i quattro e i cinque anni fa. Lui è un imprenditore edile di Pianura, R.L., finito sul lastrico per essersi messo in società con la persona sbagliata ed essere caduto nelle mani degli usurai. Attende una risposta dalla giustizia e si prevede un’attesa ancora molto lunga, chissà quanti anni per una sentenza definitiva e quanti altri per un eventuale risarcimento. Le prime minacce denunciate risalgono a febbraio 2001. Il calvario dell’imprenditore sarebbe durato quasi dieci anni. Gli usurai gli imponevano tassi di interesse impossibili da gestire, tra il 6 e il 10 per cento. Arrivarono persino a prendergli la casa: «Tu mi devi intestare la casa, ti rompo la testa se non mi dai la casa» gli urlavano tra botte e minacce. Anni di inferno, fino alla decisione di denunciare. Dal 2001 al 2010 avrebbe pagato agli usurai quasi due milioni di euro.
 
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