Per eleggerlo ci sono 400 milioni di elettori: vale a dire, il più grande spettacolo democratico del mondo. Anche se alle ultime elezioni (2019) hanno votato la metà. Il parlamento europeo viene eletto, dal 1979, ogni cinque anni. All’inizio era solo un simbolo, privo di poteri e funzioni. Serviva a manifestare l’impegno a volere costruire un’Europa istituzionale e politica, che fosse conseguenziale a quella economica e del mercato, che era alla base dell’epifania comunitaria.
L’Europa era governata dalla tecnocrazia piuttosto che dalla democrazia, nonostante ci fosse un parlamento eletto a suffragio universale e quindi apparentemente rappresentativo del popolo europeo. L’iniziativa legislativa europea era (ed è) competenza esclusiva della Commissione, ovvero del governo europeo. La quale Commissione non veniva nemmeno controllata nel suo operato da parte del parlamento. Insomma, il parlamento europeo non era e non faceva il parlamento, secondo gli stilemi classici del costituzionalismo. Non legiferava, non controllava e scarsamente rappresentava.
Con lo sviluppo dell’Europa e l’approvazione dei diversi Trattati europei, il ruolo dell’europarlamento è cresciuto. Sebbene sia stato ridotto il numero dei parlamentari, a seguito dell’uscita del Regno Unito dalla Unione Europea. L’europarlamento oggi partecipa all’attività legislativa; elegge il presidente della Commissione; può respingere la nomina di un commissario (come fece nel caso di Rocco Buttiglione); può votare una mozione di sfiducia contro la Commissione. Insomma, svolge una funzione degna del nome che ha. Il problema rimane la rappresentanza politica.
Chi e cosa rappresentano i parlamentari europei? I cittadini europei? I singoli Stati? Direi, invece, che rappresentano i partiti politici nazionali, anche all’interno dei gruppi parlamentari europei. Le elezioni per il parlamento europeo sono vissute, partecipate e percepite, come test di verifica del consenso elettorale dei partiti politici nel proprio territorio nazionale. Complice il sistema elettorale proporzionale, che fotografa la percentuale di consenso politico.
Fece scalpore il 40% ottenuto dal Pd alle ultime elezioni (grazie anche al bonus di 80 euro voluto da Matteo Renzi): un grande risultato, che però non ebbe un seguito nazionale.
Oggi l’argomento Europa è diventato centrale nel dibattito politico nazionale: dai fondi PNRR fino alle politiche di contenimento delle immigrazioni; dalle normative sulle piattaforme digitali e l’intelligenza artificiale fino alla difesa comune in favore della Ucraina. Oggi l’Europa è diventata l’argomento di scelte politiche, dove manifestare le proprie opzioni ideologiche, sull’asse destra/sinistra, in maniera più marcata di quanto possa avvenire dentro il territorio nazionale. Quello che si decide in Europa ha ricadute per i cittadini, per l’economia e il lavoro, per certi versi più consistenti di quello che si può decidere per e nel singolo Stato. La lotta per i diritti e per le libertà si svolge a Bruxelles più che a Roma. Bisogna trovare una sinergia fra la politica nazionale e quella europea, dove l’una non può essere fatta senza l’altra, e viceversa.
Mi sembra che questo aspetto sia stato colto dalla presidente Meloni, con il suo attivismo istituzionale in sede europea. Le elezioni per il rinnovo del parlamento europeo, che si terrano a giugno del prossimo anno, siano davvero l’occasione per “pensare in europeo”, come diceva Madame de Staël. Stavolta è davvero la volta giusta.
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