Per salvare l'Italia nuovi germogli, non vecchi innesti

di Alessandro Barbano
Giovedì 8 Marzo 2018, 22:54
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Quando tutto sembra volgere al peggio, quando la democrazia ansima sotto la morsa del populismo, nell’emergenza istituzionale che annebbia le coscienze e suggerisce a non pochi di aprire i fortini dei partiti assediati e di consegnare ai vincitori quel che resta per formare, quale che sia, un governo, allora, solo allora, con la tragica lucidità che il punto più acuto della crisi consegna a pochi, si inizia a intravedere una via d’uscita. L’unica possibile per rimettere in discussione la democrazia della delega e consentirle quello scatto che può rimontare l’onda della rivolta. 

Siamo in quel punto. Nell’occhio di un ciclone dove finalmente tutto si vede, e dove l’unica strada per salvarsi coincide con la risposta a questa domanda: il bipolarismo radicale di Cinquestelle e Lega occupa davvero l’intero campo della domanda di politica del Paese? Gli italiani tutti possono confrontarsi con la democrazia riconoscendosi nella scelta alternativa tra due visioni senza sfumature? Oppure in quest’alba plebiscitaria, che esce dalle urne, c’è una luce che rischiara anche un’altra prospettiva? 

Noi crediamo di sì. Crediamo che per la prima volta, dopo un quarto di secolo, in Italia si apra lo spazio per una proposta politica che abbia la stessa forza del radicalismo antisistema ma sia volta a proteggere, rinnovare e ricostruire tutte le forme della democrazia rappresentativa che il populismo ha attaccato. Una proposta che sia altrettanto netta ed efficace nella sua narrazione, quanto capace di affermare nel merito la moderazione e la mediazione come sostanza della sovranità democratica. Una proposta che perciò chiameremo di moderazione integrale.

C’è un motivo per cui questa prospettiva si apre sul Paese. Il voto del 4 marzo ha per sempre archiviato, con l’irruenza del radicalismo pentastellato e leghista, i protagonisti e le forme della Seconda Repubblica, oltre che il suo lessico della contrapposizione e del disconoscimento. Lo schiaffo ai vecchi partiti è anche la bocciatura di quella leadership del performer che, in perenne slalom tra i paletti di un tatticismo estenuante, prometteva ciò che non poteva mantenere e finiva per smarrire la direzione di marcia, deludendo puntualmente, una volta al governo, i propri elettori. 

Senonché il punto più estremo di sfiducia nel rapporto tra società e politica offre a quest’ultima un’occasione inedita: non potendo più garantire nulla, in quanto non creduta e non credibile, la politica può iniziare (o tornare) a chiedere qualcosa alla società. Può fare suo il linguaggio di una verità laica, che chiami i cittadini a un consenso attivo e li ponga di fronte alle nuove e inedite coordinate della storia. Queste riguardano per la prima volta non più e non tanto il modello di società che da destra e da sinistra si intenda promettere, quanto piuttosto il modo in cui le diverse offerte della politica siano capaci di sfidare la globalizzazione, il modo in cui sia possibile riequilibrare il rapporto tra tecnica e diritti, tra élite e masse, tra centro e periferie, tra Nord e Sud. E ancora, il ruolo e la responsabilità che, in questa sfida trasformativa, possa e debba avere la società intera.

La crisi della democrazia oggi coincide con il suo paradosso: e cioè con la massima espansione dei diritti e, insieme, delle disuguaglianze che la storia abbia fin qui conosciuto. Da questa contraddizione si vede con chiarezza come una libertà, che non abbia più nel limite il suo contenuto e nei doveri il suo contrappeso, finisca per approdare a un’uguaglianza formale che combacia con un inganno planetario, a una coscienza civile che non è più in rapporto con alcuna forma di responsabilità sociale, ma anche a una democrazia plebiscitaria che occhieggia alla dittatura. Da qui è possibile vedere come le piaghe della democrazia e i rimedi spicci del populismo siano due facce della stessa medaglia. Da qui è possibile smascherare quanto siano illusori tanto il mito di un’espansione illimitata dei diritti individuali quanto il preteso riscatto del cittadino in una assemblea degli uguali. Da qui, ancora, è possibile ricostruire e riaffermare con forza e capacità dimostrativa l’utilità e la funzionalità delle differenze, il valore simbolico della delega e dell’Autorità, il primato della responsabilità e dell’autonomia sulla falsa garanzia delle procedure asettiche e tecnocratiche, il rapporto tra la qualità della vita pubblica e un ragionevole grado di gerarchia dei saperi e dei poteri.

Ma per rieducare i cittadini alla democrazia non ci si può alleare con i populisti. Meno che mai può farlo un partito riuscito, dopo un travaglio decennale, a mettere alle spalle il carico di ideologismi che una storia tanto importante quanto funesta gli consegnava in dote. Non è di ostacolo al Partito democratico il risentimento personale per le abiure e gli insulti mossigli in questi anni dai Cinquestelle, ma l’incompatibilità programmatica e valoriale. Che alleanza può esserci tra una forza che sposa, peraltro ancora a fatica, il riformismo e una che promuove il collettivismo e l’assistenzialismo in economia e il giustizialismo nella dimensione civile? Che rapporto può esserci tra un partito storicamente lacerato dai conflitti, ma rigorosamente rispettoso della delega, e un movimento di massa guidato da una centrale tecnologica opaca, dietro la quale non si individua ancora bene chi tira le fila?

Né vale l’argomento emergenziale, da alcuni adoperato in questi giorni. Quello secondo cui la gravità della crisi istituzionale e il rischio di una deriva plebiscitaria della democrazia italiana giustificherebbero una sorta di normalizzazione dei Cinquestelle. C’è, anche nei Palazzi delle Istituzioni, chi pensa: meglio transigere oggi con la rassicurante postura di Di Maio, e strappare magari con la presidenza delle Camere qualche contrappeso istituzionale, piuttosto che doversi confrontare domani con un movimento ancora più radicalizzato, più forte e quindi meno disposto a concedere alcunché.

Per quanto grave sia la crisi che attanaglia il Paese, questo argomento malcela una scarsa fiducia nella democrazia italiana e pecca di una visione per così dire passatista, quando associa l’alleanza democrat-grillina al compromesso storico tra la Democrazia cristiana e il Partito comunista. Sono così diversi i contesti e la stessa sostanza dei soggetti protagonisti da smentire qualunque trasposizione politica tra le due vicende. Ma più di tutto è asimmetrica la realtà dei rapporti di forza. Il matrimonio tra la Dc e il Pci, peraltro propiziato da anni di dialogo e trattative, avveniva tra due forze in condizioni di parità e di combaciante radicamento nella società italiana. L’impari salute del Pd e dei Cinquestelle spiega da sola il rischio che l’abbraccio finisca in uno strangolamento.

L’appello del Quirinale a perseguire l’interesse generale del Paese e dei suoi cittadini è rituale e doveroso. Ma non è interpretabile come una malleva istituzionale a un accordo tra un direttorio democratico e Di Maio. Che interesse potrebbe mai avere l’Italia a mettere in piedi un governo eterogeneo composto da forze portatrici di valori diversi e spesso confliggenti? Quale agibilità politica potrebbe aprirsi per i partiti e quale vantaggio per i cittadini? Quale rifioritura riformatrice potrebbe mai attivarsi tra soggetti che hanno dell’economia, della sicurezza, della libertà, della stessa morale e del diritto pensieri incompatibili e inconciliabili? Quale durata e quale spinta trasformativa imprimerebbe un simile compromesso a un Paese in cronico ritardo in Europa? 

Né vale sostenere che l’unica maggioranza compatibile con la natura delle forze politiche presenti in Parlamento e con i loro attuali rapporti di forza sarebbe quella che puntasse a uno slittamento massimalista della sinistra in una ridotta subalterna ai Cinquestelle. Per i riformisti italiani vorrebbe dire consegnarsi ai nipoti ribelli di coloro contro i quali hanno combattuto per affrancarsi dalle vecchie incrostazioni ideologiche. A quale alto prezzo sarebbe ottenuto l’obiettivo di una omogeneità parlamentare?

La salute della democrazia italiana non verra mai da un connubio così innaturale, né da un’ennesima alchimia istituzionale come quella del governo Monti, ma da una prova di fiducia e di coraggio. Che in questo delicato momento può anche consistere in un’adesione temporanea, ancorché convinta, di tutti i principali partiti, nessuno escluso, a un governo di salute nazionale, di natura però politica e non tecnica, cercando una ridotta convergenza programmatica sulle questioni in grado di tenere l’Italia al trotto in Europa e di prepararla a tornare al voto con una legge elettorale ragionevole. Sarebbe il modo di verificare la concreta maturità dei Cinquestelle a sostenere e soprattutto a condividere in una democrazia plurale responsabilità istituzionali. In attesa che, con la primavera, spuntino nuovi germogli. 

L’azzeramento di uomini, metodi e linguaggi che hanno segnato una lunga stagione di stallo della democrazia italiana incoraggia inedite fioriture. La fase che si apre in questi giorni potrebbe rappresentarne una feconda impollinazione. A patto di evitare innesti innaturali, che avrebbero solo l’effetto di una tardiva gelata. 

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