PERCHÉ ROBERTO CHE CI MARCIA FA VERGOGNA

di Marco Ciriello
Mercoledì 20 Gennaio 2016, 23:48
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Poi arriva Roberto Mancini, bianco in faccia, labbra tremanti, la faccia non intonata al foulard, e scarica la sua accusa, racconta le offese ricevute, e diventa un paladino dell’Occidente politically correct, fuori dal campo. Inverte le parti, il suo essere conservatore nei moduli di gioco e avanguardia senza pallone, con i microfoni, ma è un bluff. Appare come un Giordano Bruno del calcio, trascina dalla sua parte giornalisti senza macchia né paura, fedeli al perbenismo interessato. Ma è una manovra sterile, una parata plastica su un tiro non insidioso. «Tuttosport» sposta l’asse della solidarietà da Parigi a Torino approfittando per farci il titolo – «Siamo tutti Mancini» – che però ricorda quelli del settimanale «Cuore» di Michele Serra (al ribasso, manca l’ironia).

Solidarietà pelosa senza nessun impegno o campagna reale contro la vera omofobia. Avesse usato Sarri – e la sua offesa – per chiedere quei diritti che mancano agli omosessuali in questo paese da sempre, sarebbe stato davvero un gran colpo. Ad analizzare Mancini – col beneficio della tensione – salta fuori che parla di razzismo confondendolo con l’omofobia (forse per estensione hitleriana), e che decide anche la pena rispetto alle scuse di Sarri: «non deve allenare più». È una storia di errori, maldestri e mancini. Errori che toccano tabù e mischiandosi diventano altro fino a pesare più del dovuto. Ma le offese di Sarri a Mancini ci dicono molte cose sul calcio italiano.

Tutte spiacevoli, perché, a dispetto di quello che pensano i tifosi delle due parti, non vince nessuno, e Sarri perde di più. E uno si chiede: Mancini è sempre stato così? Pronto a stemperare l’insulto, veloce a contestualizzare e rilanciare, ma allora bisogna farne un esempio, per scardinare il chiuso arretrato mondo del calcio, e invece si scopre che, come nel “Vigile” di Zampa, nella contrapposizione Sordi-De Sica, Mancini c’ha famiglia e prima c’ha precedenti, e quando si tratta della sua: i torti sono un po’ meno torti, le offese sono un po’ meno offese, e la pena? Neanche a parlarne.

Quando il suo Mihajlovic dava del «bastardo negro» e della «scimmia di merda» a Vieira in Lazio-Arsenal, Mancini usciva dai panni di Giordano Bruno, dichiarando: «Nel corso di una partita, l’agonismo esasperato può portare a momenti di tensione e di grande nervosismo. Credo che anche qualche insulto ci possa stare. L’importante è che tutto finisca lì». E davanti allo striscione di San Siro “Napoli fogna d’Italia”: «Era solo uno sfottò, come ce ne sono ogni domenica su tutti i campi. Non è stato bello leggere certe scritte, ma non si è trattato di una cosa così grave». Con Sarri diventa un correttore automatico di offese (uscite fuori corso).

E, uno pensa, però, deve aver capito dopo anni di campi italiani e di offese, è cambiato, nel periodo inglese, ha scoperto come comportarsi, come agire, e soprattutto come usare al meglio le parole. Può essere. Oppure uno pensa: Mancini andrebbe studiato per come è capace di ribaltare le situazioni, e mostrarsi per quello che non è: un eroe. Come nel caso sollevato a Hollywood da Spike Lee che vorrebbe quote di attori neri nei film e nell’elenco degli Oscar; Roberto Mancini solleva – senza lo stesso retroterra culturale del regista americano – un problema omofobo (anche se lo chiama razzismo) nel calcio italiano, indicando in Sarri il pericoloso virus (venendo dai bassifondi delle classifiche e non dalla Premier League).

Nei due casi è il mercato che decide sopra le teste degli insorti. Entrambi sguazzano in un sistema, ne sono figli e recitano una parte, ad entrambi quel sistema conviene. Poi quel sistema in Italia è sempre commedia. Mancini ne è il prodotto, da calciatore era in continua polemica con arbitri e allenatori – diede del coglione a Bersellini nello spogliatoio e in un libro anni dopo, che lo querelò – e un suo gesto (nessuno se lo ricorda?) contro i giornalisti, gli costò la Nazionale. Insomma non è mai stato Alex Langer. E arrivò in panchina senza trafila, direttamente in serie A (con salto da Lazio a Fiorentina su dispensa di Geronzi).

È il Gassman (Gianni) di “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola, quello che confonde e scavalca, e Sarri, invece, il Manfredi (Antonio) del «se semo stufati de esse bboni». Il problema è che al calcio e all’Italia manca la misura del gioco, le partite assumono missioni che stanno sopra la loro portata e fuori dall’orizzonte culturale di chi le apparecchia e disputa. E negli stadi – unico luogo del conflitto – si risolvono tutte le questioni che fuori vengono rimandate. Ma ci vorrebbe Christopher Hitchens per spiegargli come fece con Norman Mailer, il suo paradosso, e per dare a Sarri – non una ripulita perbenista – una ripassata linguistica (ma lo legge davvero Bukowski? E perché non lo usa, allora?

Leggesse anche Roberto De Simone) se davvero vuole stare nel calcio che conta (in questa situazione si sono visti tutti i deficit societari delaurentiisiani).
Per essere politicamente scorretti come per non esserlo, ci vuole cultura (nel secondo caso è richiesta meno dialettica): il politically incorrect di Sarri è conformismo (lo sport italiano ne è pieno, vero Tavecchio?), e l’anticonformismo di Mancini è solo opportunità (la cultura italiana trabocca di opportunisti). Il risultato è una sconfitta per entrambi e per l’intero mondo del calcio. Sarri e Mancini sono due maschere italiane: la modernità di pensiero (e di offesa) che manca, e l’opportunismo che abbonda e accarezza il pelo del politicamente corretto, solo quando il verso gli appartiene.


 
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