Perché il coronavirus è un sintomo dell’ambiente malato

di Erasmo D’Angelis
Venerdì 5 Giugno 2020, 23:24
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«Adda passà a nuttata», è la frase del grande Eduardo che sta accompagnando la reazione di tutta Napoli nella lotta all’epidemia del Covid-19. Stiamo ancora tutti combattendo una lotta titanica con un costo incalcolabile di vite umane e catastrofi sociali ed economiche, ma lo stiamo battendo il coronavirus che sembrava invincibile dopo aver imparato la parola lockdown e sospeso le nostre vite, vietato i nostri diritti, svuotato di vita e senso le nostre città, entrando nella logica della prevenzione più dura e mai adottata pur di rallentare e fermare l’infezione. Ma “a nuttata” non passerà del tutto senza altre due reazioni corali. La prima è la consapevolezza che anche questo contagio è collegato alla distruzione dell’ambiente e all’aumento di spillover, il salto di specie, dovuto a cambiamenti folli dell’uso del suolo e a deforestazioni criminali e incontrollate come in Amazzonia che sottraggono habitat ad animali selvatici che ospitano virus e batteri spingendoli verso di noi, quando non vengono catturati per venderli nei mercati legali o clandestini della Cina con tutto il loro corredo di microrganismi patogeni. 

La seconda reazione è per riuscire a deviare, o almeno frenare, un’altra traiettoria di rischi che sembrano oggi ineluttabili, e di fronte ai quali siamo troppo vulnerabili, distratti e inconcludenti. Bisogna frenare la corsa nazionale al consumo di suolo che cresce con perdita di biodiversità e aumento di rischi idrogeologici, la contaminazione di terreni e inquinamento delle acque che le foci del Sarno e il Volturno mettono in mostra, così come fa il Tevere a Roma con l’ultima drammatica morìa di pesci. Ma soprattutto bisogna iniziare a difendersi dagli effetti di una crisi climatica sempre più violenta ma ancora ampiamente sottovalutata, che vede l’Italia sul podio del ranking mondiale di morti e danni da catastrofi meteo-climatiche di ogni tipologia. L’Ispra indica l’ultimo anno rilevato, il 2018, non solo come il più caldo di sempre ma con un aumento di temperatura media nazionale superiore alla media globale (1,71 gradi conto lo 0,98 su scala mondo), e con l’aumento della temperatura del Mediterraneo. L’Italia, però, è riuscita a ridurre le emissioni di gas climalteranti del 17,4% rispetto al 1990, superando l’obiettivo definito nelle politiche europee, e questo indica una capacità di reazione molto positiva, e che siamo ancora in tempo per evitare le peggiori conseguenze lanciando una ambiziosa sfida tecnologica, infrastrutturale e industriale nel Paese che ha ancora negli occhi lo choc di una Venezia sommersa martedì 12 novembre 2019 dall’Aqua Granda a 187 centimetri. 

La modellistica dell’evoluzione del livello del Mediterraneo vista dai rendering dell’Enea mostra, anche prima del 2100, possibili sommersioni di aree costiere stimate tra 0,94 e 1,040 metri. Per una lunghezza di 385 chilometri, saranno condizionate dalle alte maree almeno 40 fasce costiere da Trieste a Venezia a Ravenna, dal golfo di Taranto al catanese e alle Eolie, dalle piane di Oristano a quella di Cagliari, dalla Piana del Sele e del Volturno alle coste del Sud Pontino e Ostia-Fiumicino, dalla Versilia alla Liguria. Sono modifiche radicali della morfologia, con previsioni di allagamenti fino a 5.600 km2 di pianure sul mare dove si concentra oltre metà popolazione italiana. E se nell’ultimo secolo il rialzo del livello del mare di una ventina di centimetri è dimostrato dalla graduale riduzione delle nostre spiagge, oggi siamo tra i pochi al mondo ad avere un quadro chiaro degli impatti attesi e delle vulnerabilità. Il “Documento strategico per l’adattamento ai cambiamenti climatici”, elaborato al ministero dell’Ambiente da cento scienziati, individua interventi in tutti i macro-settori sensibili (acqua, desertificazione, degrado del territorio e siccità, dissesto idrogeologico, biodiversità ed ecosistemi, salute, foreste, agricoltura pesca e acquacoltura, zone costiere, turismo, insediamenti urbani, porti, infrastrutture, trasporti, energia). A rischiare, in assenza di interventi di adattamento, sono anche i nostri porti, e il più colpito dal rialzo marino al 2100 sarebbe il porto di Napoli (più 1,040 metri), seguono Venezia (più 1,064), Salerno (più 1,020) e gli altri. Le nostre Autorità dei Sistemi Portuali devono poter iniziare a mettere in sicurezza un settore turistico e commerciale strategico e la nautica di diporto, con l’adeguamento delle infrastrutture portuali anche nei piccoli porticcioli, con opere costiere così descritte nel documento ministeriale: “Rialzare strade e magazzini e banchine a rischio di allagamento, aumentare l’altezza dei muri che circondano i magazzini, riorganizzare lo spazio del porto in modo da non localizzare i magazzini in aree vulnerabili, dragare regolarmente il fondo delle aree portuali…”.

Le risorse? La quota del Green Deal Europa, che il commissario Ue Paolo Gentiloni valuta su scala continente in 1000 miliardi di euro in grado di svilupparne 3000, è il gigantesco piano di rilancio da utilizzare in pieno per avviare il restiling delle aree costiere con progettazioni e installazioni di infrastrutture green di difesa, opere idriche per contrastare l’effetto “salinizzazione” delle falde acquifere, l’inaridimento di terreni con riduzione di produttività agricola e aumento di attacchi batterici e parassitari. L’altra faccia della medaglia, è l’incrocio della battaglia per il clima con la concretezza dell’economia reale. Si aprono nuovi scenari e comparti industriali che in Europa, calcola la Commissione Ue, apriranno le porte del mercato del lavoro ad almeno 20 milioni di persone. Una quota sarà italiana. E una grossa quota sarà al Sud.
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