Perché l'Italia non vuole la concorrenza

di Pietro Spirito
Lunedì 23 Maggio 2022, 23:45 - Ultimo agg. 24 Maggio, 06:00
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L’Italia non è mai stata la patria della concorrenza. Abbiamo sempre espresso un modello di economia di economia mista, caratterizzato da una presenza forte dello Stato nelle attività produttive: Romano Prodi lo ha definito un capitalismo ben temperato. Il punto di equilibrio tra mercato e poteri pubblici è sempre stato precario, e le nostre crisi sono derivate dalla degenerazione di tale instabile assetto. 

Nel secondo dopoguerra le imprese pubbliche hanno svolto un ruolo primario nello sviluppo economico del Paese, sino a sfociare nel modello del panettone di Stato. Da qualche tempo a questa parte, a partire dagli anni Ottanta, stiamo esagerando nella direzione opposta: le corporazioni ed i privilegi si stanno concentrando stavolta nell’economia privata.

Le 23mila concessioni balneari sono un chiaro esempio in tale direzione. Ottomila chilometri di costa generano un introito per lo Stato pari solo, secondo l’ultima rilevazione del 2016, a 103 milioni di euro, offrendo ai cittadini un servizio a costi crescenti e senza una adeguata qualità di servizio. Una spiaggia a Posillipo paga un canone di circa mille euro al mese, tanto per dare una idea di ciò di cui parliamo. 

Le concessioni sono uno dei cancri dell’economia italiana, fin dalla fondazione dello Stato unitario. Con questa tecnica sono state gestite, male, le ferrovie nel passaggio tra il diciannovesimo ed il ventesimo secolo, prima della nazionalizzazione che la Destra storica voleva già nel 1876. 

E’ accaduto lo stesso con le autostrade, nel passaggio tra il ventesimo ed il ventunesimo secolo. Dopo la privatizzazione, la concessione ha consentito ai Benetton di sfruttare una rendita di posizione senza realizzare investimenti per lo sviluppo e per la manutenzione. Riformare le concessioni è uno dei punti discriminanti per la costruzione di un modello di economia nazionale più competitivo, capace di contrastare quel declino che caratterizza i decenni recenti della nostra storia.

Non è un caso che questo sia uno dei punti che stanno alla base delle riforme che dobbiamo realizzare per rispettare gli impegni che abbiamo assunto con il Next Generation EU: sulle concessioni balneari siamo stati già per due volte condannati dalla Unione, ed un terzo procedimento è in corso di esecuzione. 

Ma l’Europa ci chiede di riformare anche le concessioni nei porti, un altro dei tasselli necessari per riportare l’Italia in un disegno istituzionale orientato alla crescita economica, all’incremento della produttività totale dei fattori, alla ripresa degli investimenti.

Poi c’è la questione della casa.

I valori catastali sono completamente sganciati dai valori di mercato. Questo meccanismo ha determinato uno dei più gravi scandali ignorati della fine secolo passata. La privatizzazione del patrimonio pubblico è avvenuta a valori di saldi di fine stagione, e pochi grandi speculatori si sono arricchiti a danno dello Stato. 

Riallineare il catasto alla realtà del mercato rappresenta un dovere civile. Eppure, se ne parla da decenni senza riuscire a mettere mano a questa riforma. Alle spalle di questa stasi c’è il timore di un drastico incremento della tassazione sulla casa. L’architettura fiscale del nostro Paese presenta un carico fiscale drammaticamente elevato sul lavoro, e ne paghiamo il prezzo in termini di minore competitività della manifattura italiana, oltre che di aumento costante della disoccupazione. Scegliere l’equilibrio corretto tra tassazione del lavoro e tassazione della ricchezza è una delle questioni centrali per riformare l’assetto della struttura economica nazionale.

Tra la protezione delle concessioni balneari e la resistenza alla riforma del catasto c’è una linea di continuità. Ci siamo convinti che lo Stato sia un nemico da contrastare, mentre sono da tutelare le rendite di posizione dell’economia privata. Ovviamente, questa convinzione si è radicata per ragioni anche comprensibili: le istituzioni pubbliche sono diventate non più un soggetto che promuove lo sviluppo, ma a sua volta una rendita di posizione da distribuire per ottenere consenso politico. Così si è ossificata l’economia italiana.

Ora il Next Generation EU ci offre la possibilità di cambiare passo. Così come nel passato abbiamo tagliato le unghie ad uno Stato che si era messo a produrre panettoni, così oggi dobbiamo ridurre le rendite di posizione di una economia privata che non investe e che si arricchisce gestendo concessioni o speculando sugli immobili. Questa è la partita che si sta giocando in Parlamento con la legge sulla concorrenza. 

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