Perché senza una politica
industriale il Sud muore

di ​Gianfranco Viesti
Sabato 21 Settembre 2019, 00:00
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Con la grande crisi l’Italia ha perso una parte significativa della sua capacità produttiva; nel Mezzogiorno questo fenomeno è stato ancora più intenso. Drammatico. Per tornare a crescere, la capacità produttiva va progressivamente ricostruita: nuove imprese, nuove specializzazioni. Se al Sud non riparte una trasformazione strutturale dell’economia, in favore dell’industria e dei servizi più avanzati, non vi è speranza di vero sviluppo. Ma per questo è indispensabile tornare a discutere di una politica industriale per l’Italia e per il Sud; e soprattutto tornare ad agire, non soltanto sulla difensiva.

Le vicende Whirlpool - come quelle di Alcatel, 3M, Fiat di Termini Imerese ricostruite ieri in una inchiesta di questo giornale - mostrano chiaramente come siano stati e possono essere difficili specifici programmi di reindustrializzazione in siti e realtà colpiti da crisi strutturali. Ogni strada va tentata (badando bene a non sprecare risorse pubbliche); ogni sostegno va garantito ai lavoratori. Ma la politica industriale di un grande Paese come l’Italia non può limitarsi a questo: ad avere un ministero che ospita principalmente tavoli di crisi. Provare a difendere quel che c’è è necessario; ma costruire il nuovo è assai più importante. 

E per troppi anni abbiamo badato solo a intervenire sulle emergenze, su ciò che fa notizia; con la sola eccezione del programma Industria 4.0: però totalmente disattento alla componente territoriale e purtroppo incompiuto nella sua parte più importante (le competenze dei lavoratori).
C’è lo dicono i numeri, che illustrano chiaramente tre fenomeni.
1) L’Italia ha una politica industriale di dimensione assai modesta, del tutto insufficiente alle sfide competitive dell’economia contemporanea. In un contributo apparso ieri sul sito specializzato Economia e Politica, Riccardo Realfonzo dell’Università del Sannio mostra che la spesa italiana per “aiuti di stato” (una misura rozza ma efficace della dimensione delle politiche industriali) in Italia è a malapena tornata ai modesti livelli del 2007. In Francia si è raddoppiata. In Germania si è triplicata. Questo, in un quadro europeo fortunatamente oggi molto più attento, rispetto all’inizio del secolo, all’importanza delle politiche industriali. 
2) Questa politica è super-frammentata. In un recente contributo il vice-direttore dell’area politiche industriali di Confindustria Giuseppe Mele ricorda che sono vigenti oggi nel nostro paese ben 925 misure agevolative (esclusi i crediti di imposta), di cui 867 delle Regioni. La dimensione media delle agevolazioni concesse è di 66.000 euro; di 46.000 per i soli interventi regionali. Briciole, a pioggia. Il ruolo degli interventi regionali è divenuto nel tempo, da complementare a quello statale, sostanzialmente preminente. Ed è bene non dimenticare che le richieste di autonomia differenziata di Lombardia e Veneto mirano ad un azzeramento delle politiche industriali nazionali, trasferendo tutte le risorse e i poteri alle Regioni. La strategia industriale del Veneto di fronte a quella cinese.
3) La politica industriale ha completamente abbandonato la finalità territoriale. Sempre Mele ricorda che gli aiuti “a finalità regionale” (prevalentemente per lo sviluppo del Mezzogiorno) complessivamente realizzati da Stato e Regioni sono ormai scesi a meno di un sesto del - modesto - totale. Questo significa che sono passati da circa un miliardo del 2008-12 alla metà negli anni più recenti Quelli realizzati dalle regioni sono assai più intensi al Nord; ma anche quelli statali hanno perso qualsiasi indirizzo di riequilibrio. L’ammontare degli investimenti agevolati sul PIL è ormai identico fra Nord e Sud. L’azione nel Mezzogiorno è “a la carte”: se in Campania e Abruzzo contano di più gli interventi statali, la Puglia segue un modello autarchico. Ovunque si costruiscono complesse “strategie di specializzazione intelligente”, ma in sostanza si fa ben poco.
Una efficace politica industriale non è una passeggiata. Nel merito, richiede attenzione massima a non abbondare con gli incentivi, come per troppi anni si è fatto, specie al Sud; a concentrare le risorse sui processi di crescita, di innovazione, di internazionalizzazione (con un’enfasi particolare sulla diffusione delle innovazioni, come in Germania) e non al mantenimento di quel che c’è. Nella sua governance richiede una strategia nazionale (adattata ai territori, ma non 20 strategie regionali), con una visione di lungo periodo; capacità di monitoraggio, valutazione, correzione. 
Ma senza una politica industriale, mirata a tutto il paese ma con chiari obiettivi di sviluppo e riequilibrio territoriale, non si va lontano. Se il Sud non torna progressivamente a popolarsi di fabbriche e uffici moderni e competitivi, capaci di vendere beni e servizi in tutto il mondo e quindi di assumere (specie i giovani più qualificati) non ha alternative al declino.
È bene affermarlo con chiarezza, in un Paese nel quale tornano nel dibattito pubblico suggerimenti da anni Cinquanta: come quello di abbassare i salari nel Mezzogiorno per favorirne un ipotetico sviluppo. Lo sviluppo viene aumentando la produttività, non riducendo i già modesti salari. E la produttività cresce attraverso il cambiamento strutturale. Ne sono attori le imprese. Ma una moderna politica industriale lo facilita e lo rende possibile, se non si limita a distribuire qualche sussidio ma persegue una visione di lungo periodo. Questa la sfida che il Sud e l’Italia hanno davanti.
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