Piano Sud, perché è l'ultima opportunità con due rischi

di Gianfranco Viesti
Sabato 15 Febbraio 2020, 00:00 - Ultimo agg. 07:13
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Ieri ha visto la luce il Piano per il Sud del ministro Provenzano. Contiene molte indicazioni opportune; stimola alcuni interrogativi e preoccupazioni. Partiamo dalle prime. Sembra corretta l’indicazione politica di fondo: il Piano Sud è un progetto per l’Italia. Per ripartire il paese deve valorizzare tutte le risorse disponibili, a partire da quelle umane; rivitalizzare la capacità di produrre beni e servizi; e quindi rilanciare anche la domanda interna, con una stagione di ripresa dei consumi e soprattutto degli investimenti interni. E’ assai opportuno il richiamo alle interdipendenze fra i territori: l’economia non è un gioco a somma zero; la crescita delle regioni più deboli aiuta quella delle aree più forti. Condivisibili, nelle loro linee generali, appaiono anche le cinque grandi priorità.

La preoccupazione per i più giovani, l’inclusione sociale, le compatibilità ecologiche, l’apertura internazionale e al Mediterraneo, l’enfasi sull’innovazione. Opportuna l’indicazione delle risorse disponibili. Non deve suscitare facili critiche anche l’ottica decennale: per trasformare davvero la situazione, dopo un ventennio di forte rallentamento e l’ultima decade con la persistente depressione dell’economia, non bastano certo pochi mesi o anni.

Sono proprio questi aspetti condivisibili che fanno sorgere interrogativi e qualche preoccupazione. Il primo quesito riguarda certamente la condivisione politica generale di questi obiettivi: quanto il progetto del ministro sia davvero dell’intero governo, e ancor più della maggioranza che lo sostiene. Tanto i 5 Stelle quanto il Partito democratico non si sono particolarmente impegnati in riflessioni e proposte su questi temi negli ultimi anni. In un mondo normale un piano del genere, così ambizioso, dovrebbe essere il frutto di una stagione di discussioni, esperienze, proposte, confronti. L’obiettivo sembra quello di provocare questa stagione. 55 diapositive creano una grande politica pubblica solo se con il tempo diventano un patrimonio condiviso di migliaia e migliaia di uomini politici, amministratori, uomini di cultura. Il rischio è che questo – senza una potente spinta che duri a lungo – possa non avvenire.

Un altro grande interrogativo viene dal necessario raccordo fra questo programma di interventi e le politiche pubbliche ordinarie. Dal Piano traspare quanto questo raccordo sia indispensabile. Ma non è certo garantito. Una politica di particolare rafforzamento dell’istruzione e degli edifici scolastici non può che raccordarsi con le scelte di lungo termine sulla scuola. L’obiettivo di potenziare la dotazione di ricercatori nel Mezzogiorno deve fare i conti con le scelte per l’università e il sistema della ricerca italiani. L’enfasi sulla realizzazione di nuove reti ferroviarie, e soprattutto l’ammodernamento di quelle esistenti per produrre risultati concreti deve raccordarsi con le politiche regionali e ancor più nazionali di finanziamento del servizio ferroviario, locale e interregionale. In generale, siamo ancora alle prese con il tema dell’autonomia differenziata: e quindi con le regole e i criteri volti ad assicurare sia responsabilità ed efficienza delle amministrazioni, sia la definizione e il finanziamento dei livelli essenziali delle prestazioni; cioè con i diritti di cittadinanza basilari per tutti gli italiani.

Ce la farà l’amministrazione? Saranno conseguenti gli atti di programmazione? Forse indicare tappe intermedie e qualche scala di priorità avrebbe giovato. Il Piano è molto impegnativo sul riequilibrio della spesa per investimenti in Italia garantendo equità territoriale nella loro allocazione attraverso la cosiddetta clausola del 34%. Lo è altrettanto per l’indirizzo di utilizzare le risorse latenti del Fondo Sviluppo e Coesione (FSC, cioè i fondi nazionali per il riequilibrio territoriale): presenti da anni solo nelle programmazioni d’insieme, ma privati degli stanziamenti di bilancio per poterli effettivamente utilizzare. Questioni ancora più importanti alla luce del crollo degli investimenti pubblici registrato negli ultimi anni, e dalla necessità di accelerare per recuperare almeno in parte i grandi gap che si sono creati. Preoccupa in particolare la programmazione per il ciclo di spesa 2021-27 sia dei fondi comunitari che del Fsc: il Piano ha molti temi, e il rischio evidentissimo (giustificato anche dai primi documenti tecnici disponibili) è che ciò possa dare copertura a processi di programmazione operativi, di dettaglio, che tendano a ripetere ancora una volta gli errori del passato: dato che serve tanto, facciamo un po’ di tutto; e dato che bisogna fare un po’ di tutto frammentiamo le risorse fra mille obiettivi e fra tanti centri di spesa. Così da ritrovarsi certamente con gli stessi problemi di sovraccarico amministrativo, parcellizzazione degli interventi, e modesti avanzamenti sul piano delle realizzazioni come negli ultimi anni. Se il Piano rappresenta una cornice politica forte, il governo deve avere la forza di indirizzare su chiare, limitate priorità e specializzare sia i fondi europei sia quelli nazionali; e conseguentemente dare indicazioni e porre vincoli alla tendenza, già mille volte vista, delle amministrazioni regionali a soddisfare mille esigenze, anche per motivi di consenso politico di breve periodo.

Una nota finale. Uno degli elementi più importanti dello scenario internazionale e una delle chiavi per la ripresa dell’Italia sono le economie urbane. Le città, in questo secolo più che nei decenni finali del Novecento, sono i motori dell’economia, i luoghi dove nascono nuove imprese. Bene che il Piano Sud ne parli, anche se forse l’enfasi avrebbe dovuto essere ancora più forte. Ma questo riporta alla nostra mente la debolezza della riflessione nazionale sulle città. I Sindaci e gli attori urbani sono fondamentali; ma la politica urbana non può che essere una grande politica nazionale di sviluppo, che destini risorse di investimento e di funzionamento, e disegni regole di funzionamento, adatte all’economia del XXI secolo. Questo riguarda tutte le città; anche e soprattutto Roma, che corre il rischio di essere dimenticata fra la forza delle aree più dinamiche del paese e la giusta enfasi sulle politiche per il Mezzogiorno.

Il grande rischio è che il Piano Sud provochi alzate di spalle; l’idea, esplicita o implicita, che si tratti di un ennesimo libro dei sogni destinato ad essere dimenticato a breve. L’opportunità è che faccia partire realizzazioni concrete, ma contemporaneamente anche una grande riflessione, in tutto il paese, su un percorso più ambizioso del galleggiamento che stiamo vivendo negli ultimi anni.

 
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