Il volto nuovo dell'emigrazione dei giovani

di Adolfo Scotto di Luzio
Domenica 4 Giugno 2023, 00:00 - Ultimo agg. 13:00
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Rivolto ai nostri connazionali all’estero, il presidente della Repubblica, in occasione della festa del 2 giugno, ha detto che «oggi lavorare all’estero non dovrebbe più rappresentare, per nessuno, una scelta obbligata, bensì una opportunità, specialmente per i giovani». È questa, ha poi aggiunto, la «responsabilità della Repubblica», auspicando che si possa passare dalla «fuga dei cervelli» alla «circolazione dei talenti». 

I dati sono noti. Li hanno ricordati ieri Marco Esposito sul Mattino e Giulia Merlo sul Domani. Il recente rapporto “Italiani nel mondo” della Fondazione Migrantes mostra come il flusso dal nostro Paese verso l’estero sia quasi raddoppiato negli ultimi quindici anni. Come è facilmente comprensibile, una parte consistente di questi movimenti è fatta da giovani, quasi il quaranta per cento ha meno di trentacinque anni (sebbene non debba essere trascurato il numero sempre più alto di pensioni italiane pagate all’estero).

A questi primi elementi di riflessione si possono aggiungere quelli forniti dal rapporto Alma Laurea sull’Università italiana. Il problema delle migrazioni riguarda in questo caso il fronte interno. Il nostro estero nazionale, se si può dire così, sono le città universitarie del Centro e del Nord Italia, che ricevono ormai da anni flussi consistenti di giovani dalle regioni meridionali. Quasi un terzo degli studenti del Sud compie la propria formazione superiore in una città dell’Italia centro settentrionale. Il quadro in questo caso è più complesso, perché questi movimenti si iscrivono in una situazione di calo delle immatricolazioni (meno studenti universitari), concentrazione urbana dei livelli formativi superiori (la metà degli studenti di livello magistrale si concentra in cinque grandi città, Roma, Milano, Bologna, Napoli e Torino), concorrenza spietata delle Telematiche a danno soprattutto delle sedi universitarie minori del Mezzogiorno.

Dunque, i giovani se ne vanno. Se ne vanno dall’Italia per l’estero, dal Sud per il Nord e dai centri universitari minori (ma non necessariamente piccoli) per un pugno di grandi università, tra cui l’unica meridionale è la Federico II. Come tutti i movimenti migratori, anche in questo caso si tratta di viaggi in cerca dell’efficienza e di un campo più largo dove giocare il proprio talento, la propria energia, il bisogno incoercibile degli individui di andare incontro ad occasioni significative in cui mettersi veramente alla prova. In questo senso, il viaggio è sempre una grande avventura dell’Io e dunque una dimensione ineliminabile del moderno. E da sempre, si giova di uno scarto e di una differenza, tra un’origine, un punto di partenza, che è sempre più arretrato, e una destinazione, che agli occhi di chi la raggiunge rappresenta il fronte più avanzato dove sperimentare forme nuove di vita. Anche quando il viaggio sta sotto il segno della necessità, il nuovo mondo è sempre la scoperta di un nuovo modo di stare al mondo.

Questo vale per tutti i migranti. Valeva per i nostri alla fine dell’Ottocento e vale per i nuovi viaggiatori di questa estrema modernità. Difficilmente, chi ha visto un altro mondo vuole tornare ad essere quello che era. Una facile controprova di questa dislocazione che avviene nello spazio e si produce inevitabilmente nelle coscienze degli uomini, si ha nei comportamenti riproduttivi dei migranti. Ci si affida con una certa facilità agli apporti stranieri per colmare i nostri buchi demografici, ma non si tende a considerare la velocità sorprendente con cui i nuovi arrivati si adeguano alla struttura riproduttiva dei paesi di accoglienza, riducendo drasticamente la propria fertilità.

Questi tratti morali dell’esperienza migratoria non vanno sottovalutati, perché rappresentano un fattore di trasformazione culturale significativo. Una volta partiti, è poi difficile tornare indietro e ciò che a casa poteva sembrare accettabile, dopo diventa insopportabile. Il migrante è da questo punto di vista un agente di modernizzazione rispetto al proprio contesto di origine.

Se dunque il rapporto istituito dall’emigrazione è sempre un rapporto di natura culturale, la risposta che bisognerebbe fornire al migrante non è semplicemente economica. Non è quella la domanda che il migrante pone alla società di partenza e non è solo una questione di diseguaglianza. È invece una questione di rapporti civili più decenti. È, a ben vedere, una questione di libertà. Ciò che il migrante istituisce è un confronto tra sistemi sociali. E d’altra parte, ogni volta che il mondo si fa più piccolo, i collegamenti più facili e veloci, ad un confronto del genere è difficile sfuggire. Il migrante va alla ricerca di più aria. Della possibilità di respirare di un respiro più largo. Che oggi ci vada con un titolo di studio superiore non cambia molto le carte in tavola. Quello che chiede a chi resta è però sempre la stessa cosa: cambiare.

La sfida sta nell’interpretare nel modo giusto questa richiesta di cambiamento. Se perciò l’auspicio non può che essere quello espresso dal presidente Mattarella, bene, allora, conviene chiedersi cosa implichi davvero la circolazione dei talenti e non la fuga dei cervelli. In un mondo di viaggi fittissimi, veloci e a basso costo, la partenza è meno radicale che nel passato. È più facile tornare a casa. Ma tornare a casa può significare due cose: concedersi il piacere momentaneo di un ritorno all’origine; oppure sentirsi a casa, in un ambiente che sia coerente con le proprie mature esigenze di vita. Possiamo cioè scegliere di essere un luogo dell’accoglienza o un luogo della vita attiva, che è sempre aspra, sfidante ma ricca di soddisfazioni. Dobbiamo cioè scegliere tra l’essere arcaici e materni, o adulti e moderni. 

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