L'aggressività delle toghe che danneggia il Paese

di Carlo Nordio
Sabato 28 Maggio 2022, 00:00 - Ultimo agg. 07:00
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A distanza di più di dieci anni dai fatti, dopo una serie di assoluzioni, rinvii e indagini clonate, la Procura di Milano ha chiesto una severa condanna a carico di Silvio Berlusconi per corruzione in atti giudiziari: cioè per aver asseritamente pagato le “olgettine” per indurle a testimoniare il falso. Tra i politici, soltanto il maresciallo Pétain aveva subito un simile calvario. Il pluridecorato maresciallo fu, come è noto, condannato a morte all’età di 90 anni. Fu graziato da De Gaulle e spirò a 95. Naturalmente Berlusconi non è destinato alla pena capitale e, quanto al resto, gli auguriamo una longevità anche maggiore di quella del venerabile militare. Resta il fatto che a questo processo, comunque vada, seguiranno un appello, molto probabilmente un ricorso per Cassazione e forse un giudizio di rinvio. Non occorrono altri commenti per concludere che un processo così è un processo fallito.

Sono concetti che, tra l’altro, ha espresso la stessa Pm nell’esordio della sua requisitoria. Ma invece di ricondurre una simile anomalia a un sistema sfasciato, dove dopo un’assoluzione si imbastiscono altre indagini alla ricerca di nuovi indizi, ha squadernato con bigotteria minuziosa una serie di eccessi e di difetti del Cavaliere, in un caotico sincretismo infarcito, tra l’altro, di contraddizioni. Perché quando ha definito le olgiettine “schiave sessuali”, la Pm si sarebbe dovuta ricordare che, se così fosse stato, avrebbe dovuto contestare all’imputato il reato previsto dall’art 600 del codice Penale.

Questo prevede appunto la riduzione in schiavitù, con una pena che arriva a vent’anni di reclusione. L’impiego improprio, in sede processuale, di un termine tipico del codice penale, è sintomatico di una suggestione enfatica incompatibile con il raziocinio che deve ispirare il rigore del rappresentante dell’accusa. Non contenta, la Pm ha ironizzato sull’età e la fragilità del Cavaliere. Mi permetto di ricordarle, da anziano magistrato, che come diceva Shakespeare siamo tutti, lei compresa, “a muddy vestige of decay”: una fangosa veste di decadenza. Basta aspettare. 

Ma vi è di più. Questa stessa Pm che ha evocato un malinconico epilogo dell’esuberante Cavaliere avrebbe dovuto guardare il disordine che regna in casa sua, dove ogni giorno emerge una crepa che rischia di farla crollare. A Milano sono stati infatti indagati il Procuratore Capo, e lo sono ancora due procuratori aggiunti. L’ex Pm simbolo di Mani pulite, Piercamillo Davigo è addirittura sotto processo a Brescia. Il dott. Storari, ancora in servizio a Milano, ha rievocato l’altroieri una vicenda incredibile: i vertici della Procura avrebbero cercato di occultare alcune prove raccolte da lui nel processo Eni. E questo già lo sapevamo. Quello che non sapevamo è che Storari avesse passato le carte non direttamente al dottor Davigo, imputato per questo di violazione di segreto, ma alla sua “compagna”, anche lei Pm a Milano, con l’ovvia conseguenza che quella Procura si arricchirà di una nuova indagata per concorso con gli altri due colleghi.

La guerra è proseguita in Cassazione, con scambi di accuse e contumelie nei confronti del Procuratore Generale. L’opinione pubblica, sconcertata e disgustata, si domanda se in questo banchetto Tiesteo Saturno stia divorando, o abbia già divorato, le sue creature. 

Vi è una sorta di Nemesi in questo finale tragicomico, assai diverso da quello apocalittico che Nanni Moretti aveva auspicato nel suo “Caimano”. La Nemesi colpisce la Procura responsabile non, come si crede, della caduta delle prima Repubblica, ma dell’arbitraria invasione della magistratura nel campo della politica. Perché non è vero che la Prima Repubblica sia caduta a seguito delle indagini di Mani Pulite. Il sistema partitico era già minato dalla caduta del muro di Berlino, dalla corruzione diffusa e dalla esasperazione degli imprenditori vessati dalle tangenti. Tra il ‘92 e il ‘94 le Procure, sia pure con errori ed eccessi, hanno fatto il loro dovere. Il sistema democratico è stato invece mortalmente vulnerato quando al Presidente del Consiglio fu notificato, durante un consesso internazionale a Napoli, un invito a comparire. Benché legittimo, quell’atto non era necessario in quel momento e in quel luogo, e ha comunque compromesso l’immagine dell’Italia. Ma lo scandalo maggiore è che la notifica sia avvenuta a mezzo stampa, con una violazione plateale di ogni regola procedurale e costituzionale. Peggio ancora, che nessuno abbia indagato per trovare i responsabili, a cominciare dai magistrati milanesi che avrebbero dovuto vigilare sulla tutela del segreto. Questa vergogna è stata peraltro condivisa dalla stessa politica, che invece di ribellarsi contro un attentato alla sua funzione ha strumentalizzato le inchieste per eliminare gli avversari che non riusciva a battere nella competizione elettorale. E’ stata questa tempesta perfetta di invasività investigativa, di complicità giornalistica e di codardo calcolo politico a sconvolgere un già precario equilibrio di poteri. 

Ora siamo prossimi al finale. Potrà esser un finale cruento se la parte più aggressiva delle toghe, screditata dagli scandali delle correnti e irritata dal fallimento dello sciopero, reagirà con una raffica di inchieste fasulle, come quella che l’indomito Renzi ha ampiamente documentato nel suo ultimo libro. Oppure potrà essere una transizione indolore, soprattutto se l’imminente referendum invierà al legislatore un significativo messaggio di protesta. La parola, finalmente, va al popolo sovrano. 

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