Pronto soccorso, la sicurezza è questione di vita o di morte

di Antonio Menna
Giovedì 24 Giugno 2021, 23:30 - Ultimo agg. 25 Giugno, 06:00
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Ma per le notizie che si hanno al momento, appare chiaro che quella morte si poteva evitare in un modo solo: proteggendo in maniera adeguata medici e infermieri, mettendoli nelle condizioni di lavorare in sicurezza, e – aggiungiamolo – serenità, perché se chi ci deve salvare la vita, mentre lavora, è più tranquillo e sereno, c’è qualche possibilità di riuscita in più. L’associazione “Nessuno tocchi Ippocrate” porta una terribile contabilità degli episodi di violenza e aggressione ai danni del personale sanitario in Campania. 

Ieri il numeratore segnava 35. Trentacinque fatti dall’inizio dell’anno. Attacchi ad ambulanze, pistole puntate, pugni, calci, sputi, oggetti lanciati contro equipaggi che corrono a salvare persone e trovano botte e pietre, raid distruttivi contro reparti interi. C’è di tutto nell’elenco. Quello che manca sono le misure di sicurezza e protezione. Dateci direttamente il porto d’armi, dicono provocatoriamente alcuni medici e infermieri. Trasferiteci in zone di guerra, ci sentiremmo più sicuri. Ma vorrebbero drappelli di polizia, una presenza costante delle Forze dell’ordine, telecamere a bordo delle ambulanze, sistemi di controllo e di sicurezza nei reparti, allarmi, pulsanti antipanico, meccanismi di rapida allerta, di pronto intervento, perfino sistemi di illuminazione più importanti, esterni e interni, insieme a regole più rigorose e a controlli più seri per l’accesso ai reparti e nelle strutture. Invece, quelli che in questa pandemia abbiamo retoricamente chiamato angeli, continuano ad andare in guerra a mani nude. Gazzelle dei Carabinieri e Volanti della Polizia sono sempre allertate e arrivano in supporto nei momenti più critici.

Ma, appunto, intervengono dopo i fatti. Occorrerebbe, invece, un serio presidio preventivo. Lo scorso anno fu salutata con enfasi la nuova Legge 113, sulla sicurezza per gli operatori sanitari. Pene più severe, procedibilità d’ufficio, l’immancabile osservatorio. Ancora una volta, solo misure sanzionatorie. Poco o nulla su organizzazione e prevenzione. 

Ma la sicurezza è un clima, una sensazione, un meccanismo che si compone nel tempo, prima dell’aggressione, impedendola, e non dopo.

Quando, poi, il dopo è che a essere indagati per una morte che si poteva evitare, per un salvataggio che non si è potuto effettuare a causa di una aggressione, sono i medici e i sanitari, cioè le vittime dell’uno e dell’altro episodio, vittime di aggressioni e vittime del dolore di non poter fare bene il proprio lavoro, allora quello che si capisce è che c’è qualcosa di sbagliato a cui porre rapidamente rimedio.

Si poteva salvare. Lo avevano detto per primi loro stessi, i medici e gli infermieri di guardia al Cardarelli nella notte tra un sabato e una domenica di tre settimane fa. Si poteva salvare, quell’uomo di 76 anni, arrivato in ospedale con un infarto e poi morto proprio in corsia con una nuova crisi cardiaca. Si poteva salvare se quegli operatori sanitari fossero potuti intervenire con manovre tempestive di riabilitazione. Ma non hanno potuto farlo. Perché? Perché negli stessi momenti in cui l’uomo si sentiva male, medici e infermieri di guardia erano impegnati altrove. A giocare a carte? A fare compere? A guardare la tv? A dormire? No.

Avevano un piccolo contrattempo: erano obiettivo di una aggressione compiuta da nove persone, otto donne e un uomo, infuriate per la morte – sempre in ospedale - di una loro congiunta, decise a sfogare la rabbia sui camici bianchi. Urla, spintoni, insulti, tentativi di assalto. 

Un vero parapiglia durato 40 minuti, con i sanitari in fuga che si chiudevano nei bagni, e provavano addirittura a mettere in salvo i macchinari. Per colpa di chi, allora, quei medici e quegli infermieri non sono potuti intervenire? Colpa loro o dei teppisti che li hanno aggrediti e distolti? La risposta sembra banale, e forse proprio per questo la notizia che oggi a essere indagati per il mancato intervento su quell’uomo sarebbero proprio medici e infermieri riempie di meraviglia e sconcerto.

Naturalmente l’apertura di un’indagine è solo un atto formale, consente agli inquirenti di procedere a doverosi approfondimenti e a fare chiarezza, e ci auguriamo che sia davvero solo così. Una procedura, una misura obbligata. Il corso dell’inchiesta ce lo dirà. 

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