Chissà che avrebbe detto don Antonio Riboldi, indimenticato vescovo di Acerra, alla notizia che in una parrocchia della sua diocesi ci si apprestava a celebrare una messa in suffragio del boss mafioso Matteo Messina Denaro, all’indomani della sua scomparsa. O meglio, chissà con quali parole avrebbe strigliato il parroco di Licignano, agglomerato urbano (6mila abitanti) di Casalnuovo, e chissà con quanta durezza – come opportunamente ha fatto ieri anche l’attuale vescovo, Di Donna -, avrebbe indicato in quella scelta, l’errore peggiore di una Chiesa che, lungo una frontiera, non deve smarrire il senso della sua missione, che è pastorale in quanto sociale, quindi per la legalità e il riscatto.
È un piccolo episodio che racconta grandi cose, quello avvenuto. Il parroco, don Tommaso Izzo, è stato ordinato sacerdote ad Acerra 53 anni fa. È nativo di Casalnuovo. Non è un giovane prete alle prime armi. Non è un prelato inesperto. E conosce il territorio. Come ha potuto accogliere la richiesta di un fedele di una messa in memoria di un boss morto, mai pentito, in carcere da 9 mesi dopo una latitanza di 30 anni, capo della mafia? Come ha potuto consentire che venisse annunciata addirittura sulla pagina Facebook della sua parrocchia, quasi per chiamare a raccolta i fedeli, per poi annullare tutto un’ora dopo, alle prime polemiche, parlando di “prudenza pastorale”, una espressione di cui non si coglie il senso, poi più cristianamente ha ammesso il colossale errore e ha chiesto scusa.
Tutta la vicenda accende una spia, è un piccolo segnale di allarme per una questione più grande, che riguarda la generale minimizzazione del fenomeno criminale sui nostri territori, che poi dà luogo a una vasta area di connivenza sostanziale, non nei fatti ma nella costruzione di quel clima grigio che mescola omertà e indifferenza, e che è il brodo di coltura ideale per i clan.
La sensazione è che ormai si consideri la criminalità organizzata parte del corpo sociale, quasi connaturata ai luoghi; non una gemmazione del male da combattere a fondo, con ogni mezzo, e senza riserve o reticenze, ma una radice inestirpabile con cui convivere, come una colossale scesa a patti di un intero territorio con la sua unica, vera, forma di organizzazione, a cui il territorio stesso non è in grado di opporre nulla. Manca, in sostanza, una cultura diffusa della legalità, una legalità organizzata, da contrapporre a quella criminale. Per cui, ciascuno, giorno per giorno, stabilisce il suo ordinario, minuscolo, compromesso; nessuno disturba, nessuno vede, nessuno dice più no, come se fosse venuta meno qualunque capacità di reazione, anzi qualsiasi volontà. Non si può spiegare diversamente quel muro di gomma su cui sembra rimbalzare ogni tentativo di smantellamento delle organizzazioni criminali, sia dal punto di vista repressivo (uno lo arresti e un altro è già pronto a sostituirsi) sia dal punto di visto sociale e culturale.
Una situazione molto grave, su cui vanno dette parole chiare e compiute azioni decise. Per una volta non c’entra lo Stato ma la capacità di una mobilitazione culturale dal basso, che rovesci totalmente il debolissimo pensiero diffuso. In questo – finiti i partiti politici, spenti i sindacati, in crisi tutti i soggetti di mediazione sociale – la Chiesa deve sentire il peso di un compito fondamentale. Forse addirittura più di quello che ha svolto, in parte, e con voce non univoca, negli anni Ottanta. È una organizzazione che resiste, che ancora parla a una comunità, che ha un suo radicamento e una sua ramificazione. Occorre un sussulto di mobilitazione che arrivi a ogni parroco di ogni piccola chiesa. Non serve avere le mani pulite se le tieni in tasca, diceva don Milani. Bisogna illuminare ogni ombra, tagliare ogni filo. Abbandonare ogni prudenza, pastorale e no, e celebrare una messa, semmai, in suffragio di tutte le vittime del boss Messina Denaro. Stare con chi soffre, non con chi fa soffrire.
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