Quello Stato imprenditore che ha fatto bene al Sud

di ​Guido Pescosolido
Giovedì 9 Luglio 2020, 23:00 - Ultimo agg. 10 Luglio, 07:30
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Nel dibattito che si è sviluppato negli ultimi mesi sugli effetti economici del coronavirus e sulle ricette per porvi rimedio si è delineata una contrapposizione abbastanza netta tra chi ha avanzato l’ipotesi di un ritorno in forze dello Stato imprenditore (Mazzucato), e coloro che hanno messo energicamente in guardia dal ripercorrere una simile via, nella radicata convinzione che l’impresa pubblica sia di per sé una pericolosa fonte di inefficienza imprenditoriale, dissipazione di risorse, corruzione.

Questi ultimi sono convinti che di ciò abbia dato ampia prova il disastro finanziario della maggior parte delle partecipazioni statali nel secondo dopoguerra (Amatori, D’Antone, F. Debenedetti). 

L’industrializzazione italiana non è stata frutto esclusivo dell’impulso dell’impresa privata. Essa prese avvio tra fine Ottocento e primi del Novecento grazie, certo, alla forte vitalità dei suoi imprenditori e della banca mista, dell’energia elettrica, dei mercati internazionali, dell’emigrazione, ma fu resa possibile dal protezionismo doganale, dagli aiuti diretti dello Stato alle imprese e soprattutto dalla grande infrastrutturazione e modernizzazione realizzata dallo Stato liberale tra il 1861 e il 1894 indebitandosi fino a un rapporto debito pubblico/Pil del 125% nel 1894. Fu costruita allora ex-novo l’intera rete ferroviaria nazionale a binario unico. 

Negli anni della ricostruzione e del «miracolo economico» lo Stato e l’impresa pubblica svolsero un ruolo fondamentale e propulsivo, non solo sul piano tecnico-organizzativo (si pensi alla genialità di un Oscar Sinigaglia), ma anche rispetto all’apertura dei mercati e alla rinuncia al protezionismo, contro i timori della siderurgia privata dei Falck. 

L’impresa pubblica ebbe inoltre un ruolo di fondamentale importanza nella riduzione del divario Nord-Sud e nella nascita di un sistema industriale integrato su scala nazionale e internazionale. 

Per quanto in forte crescita di reddito e rivoluzionaria trasformazione sociale, tra il 1950 e i primi anni Sessanta il Sud non accorciò le distanze dal Centro-Nord in termini di Pil pro-capite. Quel divario decrebbe di 10 punti solo tra il 1962 e il 1973, quando cessarono le sovvenzioni a pioggia a imprenditori più o meno improvvisati, diversi dei quali provenienti dal Nord, e si favorì anche nel Sud la nascita dei grandi insediamenti dell’industria pubblica, resistenti alla criminalità organizzata. Nei decenni successivi, liquidate la Cassa per il Mezzogiorno e buona parte delle partecipazioni statali, la politica industriale centrata sull’impresa privata non ha evitato la nuova crescita del dualismo Nord-Sud fino alle dimensioni già esistenti negli anni Cinquanta. I pochi distretti che ancora sopravvivono nel Mezzogiorno derivano per buona parte dai poli industriali degli anni Sessanta-Settanta. 

Evidentemente non è stato il modello della partecipazione statale di per sé a determinare la trasformazione dell’apparato produttivo pubblico da fonte di ricchezza e progresso a fonte di dissipazione di risorse e regresso, ma altri fattori, fra i quali la qualità e la caratura anche etica del management e il suo rapporto con il potere politico, le istituzioni, la società. In ogni caso, resta il fatto che l’eliminazione o quasi dell’impresa pubblica non ha garantito all’Italia, in Europa e nel mondo, un destino molto migliore di quello che il Mezzogiorno ha avuto in Italia. Oggi l’economia italiana procede molto più lentamente di quando vi esisteva l’impresa pubblica, e, con Germania e Giappone, si trovava ai vertici della crescita economica planetaria.

Ritorno allora all’impresa pubblica? No di certo, ma neppure nessuna illusione che l’impresa privata da sola possa sciogliere il nodo che rischia di strangolare la nostra economia. Il passaggio nel quale ci troviamo è drammaticamente stretto e se non usiamo la possibilità di indebitamento straordinario che ci si offre per investire nella riduzione del dualismo Nord-Sud e nel recupero omogeneo di competitività sull’intero territorio nazionale, ci potremmo trovare ben presto con un ritardo economico rispetto all’Europa ancora più grave di quello degli anni scorsi e con un indebitamento insostenibile. Ed è impensabile che l’occasione si possa cogliere senza una presenza dello Stato efficace a tutti i livelli e in particolare nel Mezzogiorno, anche se ho forti dubbi che la classe politica attuale sia in grado di esprimere un management all’altezza del compito.
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