Quirinale, l'intesa più difficile è su Palazzo Chigi

di Alessandro Campi
Lunedì 24 Gennaio 2022, 23:30 - Ultimo agg. 25 Gennaio, 06:00
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Eppur ci si è mossi… La scelta dei grandi partiti di ricorrere alla scheda bianca nel primo giorno di votazione era parsa, allorché annunciata in tarda mattinata, un’ammissione di impotenza, la certificazione della confusione regnante, l’inizio di uno stallo destinato a durare chissà quanti giorni. Era invece un segnale politico di disponibilità: a trattare, a ragionare, a venirsi incontro. Invece di gettare nella mischia improbabili candidati di bandiera, come hanno fatto alcune formazioni minori, invece di provare a contarsi lasciando magari spazio ai franchi tiratori e ai goliardi.

Questi, comunque, non sono mancati nemmeno stavolta, meglio prendersi il tempo necessario per riflettere sul da farsi, meglio non fare nomi.

E infatti quella di ieri è stata, oltre la lentezza protocollare di votazioni e scrutini finiti a tarda sera, una giornata febbrile di incontri, telefonate, trattative. Che ha coinvolto non solo i partiti e i loro leader, ma a quanto pare anche il candidato par excellence di questi mesi: Mario Draghi. Che da tecnico (talvolta un po’ sdegnosamente) al di sopra delle parti, si è dovuto repentinamente trasformare in politico, seppur sui generis, impegnato a dialogare con le diverse parti, ossia con coloro che dovrebbero eventualmente votarlo. 

Un Presidente della Repubblica eletto prescindendo da un accordo esplicito con i partiti – o, peggio, eletto quasi a loro dispetto – non si è in effetti mai visto. 

Sappiamo che Draghi ha ufficialmente visto Salvini, ma ha avuto contatti e scambi anche con altri esponenti politici (a partire dal capo del Pd, col quale ha intrattenuto un colloquio telefonico). Dopo di che il leader della Lega, Letta e Conte hanno fatto sapere che il dialogo tanto invocato è finalmente stato avviato.

Si è dunque trovato un consenso vasto sul nome dell’attuale Presidente del Consiglio, a dispetto dei dubbi che sono continuati a circolare per buona parte della giornata (in particolare quelli reiterati da Forza Italia)? Draghi ha dato le giuste rassicurazioni ai partiti che – tutti – ne temono lo strapotere nel caso dovesse andare al Colle? Si è individuato un percorso condiviso in vista della sua eventuale successione al governo e un accordo sul nome stesso del suo successore? 

Difficile dirlo, anche perché secondo alcune fonti l’incontro tra Draghi e Salvini non è andato affatto bene. Non c’è stato alcun consenso sulla legge elettorale, come qualcuno ha ventilato; e non è venuta alcuna rassicurazione su un capo del futuro governo che sia un politico (magari un esponente della Lega). Diciamo, nell’incertezza, che i leader dei tre più grandi gruppi in Parlamento si sono messi d’accordo sulla necessità di mettersi d’accordo. Sembra poco, invece è molto. Anzi, è il passaggio decisivo perché s’arrivi ad una soluzione in tempi relativamente brevi. Che oltre Draghi, potrebbe prevedere diverse altre soluzioni di compromesso, a partire dal nome ricorrente di Pierferdinando Casini. L’intesa sul metodo è stato il primo passo, quella sulla persona da votare ed eleggere sarà il secondo.

Quello che è certo è che mai come stavolta ci si trova in una condizione per cui gli accordi da trovare, contestuali tra loro, sono in realtà due: quello per il Quirinale, quello per Palazzo Ghigi. Presidenza e Governo, nella storia dell’Italia repubblicana, non si sono mai sovrapposti nel loro funzionamento e non sono mai stati oggetto di scambio politico.

Stavolta, piaccia o meno, è diverso. Si tratta dunque di sbrogliare una matassa a dir poco intricata. 

Se Draghi non va al Colle quali garanzie abbiamo che resti al suo posto? Lo spirito di servitore dello Stato dovrebbe imporgli di mantenere gli impegni assunti e per i quali è stato chiamato in funzione commissariale. Ci vorrà, si dice, un Capo dello Stato energico e autorevole per mantenere un dialogo fruttuoso tra Quirinale e Palazzo Chigi. E per evitare di perdere una risorsa preziosa come Draghi per sempre: né Presidente, né premier. 

Più complicate le cose se Draghi dovesse essere eletto al Colle. A chi affidare la guida del governo sino alla fine della legislatura? Se fosse un altro tecnico (molto gettonato ieri il nome di Elisabetta Belloni) a quel punto avremmo i due vertici della politica italiana in mani extra-politiche. Una garanzia di competenza e di imparzialità? No, un fallimento istituzionale, come lo sarebbe – da un altro punto di vista – il richiamo in servizio di Mattarella in caso di impasse prolungata. 

Se fosse invece un politico, a quale schieramento o partito dovrebbe appartenere? L’importante – si dice – è che l’esecutivo vada avanti, purché si metta mano ad un significativo rimpasto (la Lega certamente vorrebbe per sé il Viminale, ma anche i ministri in quota Forza Italia non sembrano più nelle grazie del Cavaliere). Anche se appare deprimente l’idea che la trattativa sul Capo dello Stato, appena avviata, abbia come posta in gioco nemmeno troppo segreta qualche poltrona da ministro.

Anche perché questo insistere sulla continuità del governo di “larghe intese” dopo l’elezione del Capo dello Stato, chiunque quest’ultimo sia, sembra nascondere un grande equivoco. Da qui al voto del 2023, quando si definiranno i nuovi equilibri di potere nel Paese e dunque nel Parlamento, manca un anno scarso. Dal giorno dopo l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica, tutti i partiti, a partire da quelli che adesso stanno insieme nella maggioranza, saranno de facto in campagna elettorale. Altro che “unità nazionale”! Ognuno per sé, a caccia di elettori. Insomma, tecnico o politico, con Draghi o senza, il “governo senza formula politica” voluto a suo tempo da Mattarella rischia di avere una vita assai stentata dopo il ritorno di quest’ultimo alla vita civile. Il peggio che potrebbe accadere e che non è affatto da escludere è un governo debole che si trascini sino alla fine della legislatura giusta per la convenienza dei singoli parlamentari.

Intanto la Borsa soffre, dicono quelli che chiedono ai partiti di “fare presto” come se in passato, nelle votazioni per il Quirinale, le cose fossero andate diversamente. Il tonfo finanziario di ieri non è stato solo milanese, ma internazionale. Il nervosismo dimostrato dai mercati e dagli operatori non dipende dalle incertezze sul nome di quest’ultimo, ma dai venti di guerra che soffiano sul mondo a causa della crisi sull’Ucraina tra Russia e Stati Uniti. Siamo ancora un grande Paese, per spirito e cultura, ma non facciamo dell’Italia il cuore del mondo e dell’elezione del nuovo Capo dello Stato l’evento politico dell’anno. La Grande Politica non ci appartiene più da un pezzo.  

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