Repubblica, il significato di una Festa che riguarda le nostre radici

di Alessandro Campi
Lunedì 5 Giugno 2023, 00:49 - Ultimo agg. 06:00
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Passata la festa (della Repubblica) lo santo che rischia di venire gabbato è lo Stato nazional-repubblicano medesimo. Nel senso che partiti e leader per un giorno si fanno belli con gli italiani promettendo loro unità e concordia, invocando un bene politico comune al quale tutti dicono d’aspirare nei pensieri e nelle azioni, salvo dimenticarsi di questi buoni propositi già il giorno dopo e tornare a dividersi sul filo delle convenienze partigiane e di pregiudizi ideologici vecchi e nuovi. 

È il rischio, si dirà, che oggi corrono le celebrazioni politiche civili e le ritualità istituzionali, che nutrendosi per definizione di una sacralità posticcia e surrogata soffrono il galoppante disincanto secolarista più di quanto non capiti alle stesse ricorrenze religiose. Ragione di più per prenderle sul serio, se davvero si tiene all’integrità e stabilità di una comunità politica: che nel caso di quelle democratiche prevedono la divergenza delle opinioni e la conflittualità politica come fisiologica, purché ovviamente non ci si riduca – come capita spesso in Italia – al muro contro muro esistenziale o alla totale incomunicabilità tra le parti.

Ciò significa, per tornare alla festività del 2 giugno, che l’omaggio alla Repubblica e allo Stato unitario che ne è l’antefatto storico e il perimetro simbolico-legale non può durare solo il tempo che durano i suoi diversi momenti liturgici e cerimoniali: il saluto delle istituzioni al Capo dello Stato, l’omaggio al Milite Ignoto, il canto dell’inno nazionale, la parata militare (oggi anche civile) in via dei Fori Imperiali, il volo delle Frecce Tricolori, il tutto preceduto dal ricevimento al Quirinale e accompagnato da discorsi e dichiarazioni solenni. Dovrebbe durare tutto l’anno, oltre la scadenza ufficiale iscritta nel calendario. 

Insomma, non ci si dovrebbe mai dimenticare, gli italiani, ma soprattutto i loro rappresentanti politici, di maggioranza e di opposizione, di tutto ciò che una simile festività richiama e implica: in primis l’esistenza di regole condivise a partire da valori comuni, ma anche di una storia collettiva segnata inevitabilmente da continuità e fratture, di un senso del “Noi” basato sulla volontà ad essere qualcosa di più che una sommatoria di “Io”, di una qualche visione del futuro nella quale riconoscersi come comunità organizzata. 

Servirebbe, detto altrimenti, un esercizio quotidiano di rammemorazione dello spirito patriottico-repubblicano giustificato, nel caso dell’Italia, da almeno quattro serie ragioni.

La prima è che parliamo di una festa-celebrazione nazionale, oggi molto amata e partecipata soprattutto a livello popolare, ma che ad un certo punto della nostra storia venne prima sospesa, poi sostanzialmente soppressa, ripristinata quindi in forma dimidiata e politicamente obliqua, e solo nel 2000 restituita alla sua solennità civile e al suo significato politico più autentico.

L’esperienza ci dice dunque che basta poco, ad esempio l’ignavia momentanea di una classe politica confusa, per smarrire il sentimento del proprio credo collettivo.

La seconda ragione attiene al capolavoro storico operato dalla Repubblica democratica nata dal rinnegamento del fascismo: aver consentito la convivenza, sotto il manto costituzionale, delle più svariate culture politiche e ideologiche, senza che la lotta tra di loro portasse mai a un punto di rottura.

L’unità nella differenza, anche radicale, delle posizioni. 

Quelle culture erano luoghi identitari, scuole di vita, tradizioni famigliari, correnti di pensiero radicate nella storia nazionale: ma strada facendo esse si sono rinsecchite o sono scomparse. Hanno quindi smesso di funzionare come fattori ideali aggreganti ovvero sono state sostituite da visioni politiche collettive senza radici nel passato o puramente convenzionali. Quel tessuto connettivo ideale e valoriale va riscostruito, se si vogliono uno Stato funzionante e una Repubblica partecipata.

Come terza ragione bisogna poi considerare che viviamo tempi nei quali tanto più ci si richiama al valore della memoria, tanto più ci si scopre ignoranti della storia. Peggio, prevale oggi la tendenza a ricostruire il passato in modo selettivo, arbitrario e strumentale, prendendo da esso solo ciò che soggettivamente piace o ciò che meglio serve gli interessi della propria parte politica. 

Ricordare una volta l’anno, con grande pompa, le fondamenta etico-politiche della Repubblica serve a poco se poi a livello collettivo si disconoscono i fatti storici (e i personaggi) che l’hanno fatta nascere. Celebrare alle date fisse va bene, ma serve una pedagogia costante che combatta questa generale tendenza all’oblio o alla rimozione. 

Da ultimo, bisogna ricordare che viviamo una fase del mondo segnata da crescenti divisioni e da contrasti sempre più profondi, da disparità, anche economiche e sociali, crescenti, da una polarizzazione delle posizioni che favorisce il radicalismo politico. È un fenomeno non solo italiano, dal momento che riguarda la gran parte delle democrazie. Ma altrove esso è attutito dall’esistenza di un sentimento dell’appartenenza collettiva più radicato e sentito. 

In Italia non sono pochi coloro che scambiano il richiamo all’unità nazionale come un espediente retorico finalizzato ad imporre una falsa concordia e a neutralizzare i conflitti sociali. Mentre esso è la premessa necessaria di una convivenza collettiva stabile. L’unità istituzionale come garanzia del pluralismo politico.

Insomma, ne abbiamo di motivi per omaggiare la Repubblica e i simboli patriottici. Ma tutti i giorni, silenziosamente.

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