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Riscatto Iran, calcio simbolo di felicità oltre i divieti

di Carmine Pinto
Articolo riservato agli abbonati
Venerdì 25 Novembre 2022, 23:52 - Ultimo agg. : 26 Novembre, 07:37
4 Minuti di Lettura

L’Iran non canta l’inno. I giocatori, questa volta, lo hanno mormorato. In ogni caso, hanno vinto con il Galles, una squadra certo non disprezzabile. Per ora, è difficile capire come finiranno i mondiali, e quale sarà il risultato finale della squadra di Teheran. 

Certo, ancora più complicato è comprendere come questo si intrecci con il destino di uno dei più autocratici e brutali regimi della nostra epoca. Qualche giorno fa, la scelta di non cantare l’inno durante la partita contro l’Inghilterra aveva suscitato un qualche entusiasmo tra l’immensa folla di iraniani, e di tifosi, che combattono il governo islamico. Anche con qualche sorpresa, in realtà, perché quando la squadra era partita per i Mondiali, il presidente Ebrahin Raisi aveva visto i calciatori.

Subito erano rimbalzate le foto dell’incontro, con i giocatori intimiditi da un politico considerato uno dei volti più spietati del fondamentalismo islamico iraniano. Anzi, le foto del presidente con la squadra, con quel turbante nero che i ragazzi cercano sempre di far volare, i colori scuri del vestito e la barba bianca suscitavano tremenda rabbia. Tutti i simboli degli Ayatollah, disprezzati dai giovani iraniani, con il volto e le parole decise ed esaltante, gli sono apparse come un tentativo del regime di accreditarsi e di farsi una verniciata di immagine.

Quella foto è circolata un po’ ovunque, con i giocatori barbuti e i vestiti dimessi, a fianco del tronfio Raisi. Sui social e sui media quel ritratto è stato sistematicamente affiancato alle immagini delle giovani che protestavano, a partire dalla squadra femminile di basket Canco. Sedici tra giocatrici e allenatrici si sono fatte riprendere entusiaste e senza nessun velo, con i colori rossi che esaltavano ancora di più i capelli neri e biondi, i sorrisi di donne che si sentivano capaci di sfidare la dittatura. E così la squadra di calcio è stata bersagliata da giovani e giovanissimi indignati, che si aspettavano una reazione diversa e più coraggiosa da parte di uno dei pochissimi simboli nazionali condivisi.

Tutti sono restati sorpresi così, quando la squadra ha dato un segno di orgoglio, restando in silenzio, pochi giorni fa, prima della sfida con gli inglesi. Del resto, un inno che annuncia l’eternità del fondamentalismo islamico nei suoi versi, non è certo un buon viatico. Non lo è per i giovani che sperano in gesti potenti, da parte di alcuni dei personaggi più famosi del loro Paese, con giocatori come Teremi e Azmoun che sono nel gotha del calcio mondiale. Senza contare che, molti tifosi e giovani donne sono stati aggrediti dai supporter degli Ayatollah anche fuori degli stati del mondiale di calcio (e ieri le magliette dedicate a Masha Amini sono state vietate). Certo la paura non manca, i giocatori temono rappresaglie verso le loro famiglie o peggio di fare la fine di Voria Ghafouri, il calciatore che ha attaccato il regime ed è finito in carcere.

Non sappiamo cosa faranno ora gli atleti, se reggeranno la doppia tensione tra una occasione professionale unica e un paese in fiamme come mai. Quello che è certo, è che le proteste sono le più forti e le più coraggiose dall’instaurazione della feroce dittatura islamica nel 1979. Manifestazioni, proteste così come gesti solitari o magari anonimi, non erano mai mancati prima della uccisione di Masha. In molti casi avevano assunto anche dimensioni di massa, terminando come sempre nella lunga fila di arresti, uccisioni, esili e silenziose sofferenze a cui ci hanno abituati i regimi autoritari o totalitari dell’ultimo secolo. 

Non a caso, proprio il volto duro e spietato del presidente Raisi è quello di un uomo sanzionato perché accusato di aver gestito tanto le purghe interne al regime, quanto ogni tipo di violazione di diritti umani, compreso la repressione di donne, dissidenti e giovani che avevano promosso le manifestazioni del 2009. La lezione dei giovani e delle famiglie iraniane che rischiano la vita, la carriera ed ogni tipo di rappresaglia, è del resto la stessa che abbiamo visto in questi anni a Caracas o a Cuba, in Bielorussia o, come mai, nella battaglia per l’Ucraina. 

Non esiste un mondo che vuole vivere senza libertà. Quella parte dell’establishment politico-culturale dei nostri paesi che ha difeso Castro o Maduro, giustificato Putin o Khamenei, usa l’ostilità al liberalismo o all’Occidente per goderne i vantaggi e avere il palcoscenico di un dissenso di comodo. Questo non possono permetterselo coloro che vogliono vivere come noi e cercano di farlo ad ogni costo. Anche il calcio iraniano si è messo in fila, non sappiamo dove e come giungerà alla fine del suo mondiale. Quello che è certo è che i suoi protagonisti, i giocatori della cupa foto e poi del coraggioso silenzio, non potevano restarne fuori. 
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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