Scuola orfana delle riforme ​demolita dai test Invalsi

di Adolfo Scotto di Luzio
Domenica 18 Luglio 2021, 00:00 - Ultimo agg. 07:37
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Ha suscitato molto scalpore qualche giorno fa la pubblicazione dei dati Invalsi 2021. E non poteva essere altrimenti. Veniamo da un anno e più di dad, la famigerata didattica a distanza, ed è comprensibile che si volesse conoscere l’effetto sugli apprendimenti degli studenti. A sentire l’Istituto nazionale di valutazione del nostro sistema scolastico (Invalsi), è stato pessimo. Due su cinque dei licenziati dalla scuola media, il 40%, si accinge a varcare la soglia della scuola secondaria superiore con competenze equivalenti ad un bambino di quinta elementare. Il dato cresce al Sud fino al 60%. Alla maturità, le cose vanno peggio. In tantissimi si sono diplomati pur stando a livelli di terza media. Si chiama “dispersione implicita” e si vuol dire lo scarto tra la certificazione educativa, il cosiddetto titolo di studio, e ciò che essa certifica. Avere un diploma in altri termini non indica quello che il suo possessore sa e sa fare con quello che sa. Chi di noi insegna all’Università, e in generale i professori, conoscono benissimo il fenomeno, e non hanno certo bisogno dei dati dell’Invalsi per avere una misura precisa della gravità del fenomeno. Da tempo, coloro che in un qualunque dipartimento universitario si ostinano a sottoporre i propri studenti a prove scritte si trovano a dover correggere prima di ogni altra cosa la grammatica della lingua italiana. E si tratta di “e” con l’accento e “a” senza h, di doppie e scempie a caso o meglio secondo la pronuncia errata della lingua parlata, di apostrofi dove non ci starebbero. Parole mai lette e solo ascoltate (in qualche caso molto di rado) sono quasi sempre di incerta resa grafica. Ma è tutta la struttura del linguaggio ad essere collassata in questi studenti, dalla scelta del lessico alla sintassi. Inutile dire che non si tratta di mera forma, ma di organizzazione logica del pensiero mediata dal linguaggio. Di questa catastrofe, la scuola è uno degli epicentri, forse il punto maggiore di smottamento, ma trattandosi appunto di lingua la metafora che meglio fissa il fenomeno è di altro tipo, riguarda la diffusione di un virus, per usare un’immagine con la quale, ahimè, abbiamo imparato a misurarci in questi mesi. 

Tutto il sistema dell’informazione e della comunicazione fatalmente ne risente con un effetto contagio sostanzialmente incontrollabile. Siamo una società linguisticamente povera, con tutto ciò che questo significa in termini di rappresentazione e comprensione del mondo. Mitologia e narrazione nella confezione delle notizie ormai la fanno da padrone e con esse arretra ogni possibile comprensione razionale dei problemi. Detto questo però ci sono altre osservazioni da fare, a partire proprio dalla valutazione. Ho fatto ricorso alla mia esperienza di professore universitario non certo per indulgere alla ricca aneddotica che sulla materia, fin da Marcello d’Orta, ha alimentato un cospicuo filone dell’editoria italiana, ma perché al di là della grande enfasi messa in questi anni sulla misurabilità dei fenomeni sociali, basta avere occhi aperti (e un minimo di onestà intellettuale) per sapere che la scuola italiana in molti casi non consegue i suoi risultati. Di solito, nel dibattito italiano gli esiti dei test vengono puntualmente branditi come una clava dai loro solerti zelatori, e quasi sempre per dare addosso agli insegnanti. Un tempo si diceva di loro che andavano dietro a cose vecchie, oggi la solfa è diversa: gli insegnanti sono semplicemente impreparati. I giornali generalmente ci vanno a nozze e tra tutti si distingue il Corriere della sera che, salvo poche eccezioni, è una delle centrali ideologiche della nuova scuola e non certo la meno rilevante. Non fanno eccezione Repubblica e, per insipienza, il Manifesto. Viene perciò da chiedersi, di fronte a tanta fervida sollecitudine, cos’altro debba accadere perché questa benedetta nuova scuola veda finalmente la luce, dal momento che sono quasi trent’anni che con solerzia ci si è applicati alla demolizione della scuola del passato.

Uno di solito non ci fa caso, ma chi è nato nel 1990, e oggi ha intorno ai trent’anni, ha compiuto per intero il ciclo della sua formazione, dalle elementari all’università, in un sistema formativo in perenne, ininterrotto, rivolgimento. A maggior ragione, coloro che sono venuti dopo. Tanto da far sorgere il dubbio che se gli apprendimenti di questo ipotetico giovane sono così scadenti, forse la ragione sta proprio nel modo sbagliato con cui si è lavorato in questi anni alla riforma della scuola. Trent’anni non sono pochi. Cambia la didattica, cambiano i programmi, cambiano gli insegnanti. Nuove, soprattutto, sono le responsabilità politiche, Berlinguer, Moratti, Gelmini, e il lungo stuolo dei loro consulenti. Li trovate tutti in prima fila a sbraitare contro il passato. Se fossero un po’ meno fanatici e in mala fede scoprirebbero presto che il passato contro il quale inveiscono sono proprio loro.

Da qui una domanda che in pochi si fanno. Quando l’Invalsi misura la scuola italiana quale scuola misura, quella di ieri o quella che è stata pervicacemente costruita in questo ormai lungo periodo riformatore? Se infatti la scuola non è più ormai da molto tempo la “vecchia scuola”, quella che si portava appresso lo stigma originario di “gentiliana”, l’uso polemico delle rilevazioni statistiche per rivendicare la necessità di un’ulteriore riforma appare per quello che è: il tentativo di coprire un fallimento; e un modo per estorcere ad un’opinione pubblica ammutolita dall’ingiunzione intimidatoria dei numeri, i famosi dati, un’ ulteriore delega alla demolizione di ciò che resta della scuola pubblica repubblicana. Il ragionamento che viene fatto è il seguente (lo hanno evidenziato di recente Alberto Baccini e Rossella Latempa sulla rivista il Mulino): se il test certifica un insuccesso, quali interventi correttivi produce? Negli altri paesi si rimuovono dirigenti e insegnanti, si chiudono le scuole, si fa spazio ai privati. In Italia, no. Perché su questi argomenti manca il consenso politico e, in particolare, quello sindacale. Di qui la spinta a considerare gli insegnanti come dei fannulloni analfabeti. È più facile rimuovere chi è universalmente considerato da poco. C’è chi poi va oltre, invocando il passaggio da una scuola di Stato ad una scuola a gestione comunitaria, a base territoriale, per mezzo di associazioni professionali. Sono tutte cose che si leggono, neanche a farlo apposta, in un libro dal titolo eloquente “Liberare la scuola”, edito lo scorso anno dalla casa editrice il Mulino. Si capisce, allora, come alla luce di queste considerazioni la valutazione degli apprendimenti non sia il vero centro della questione, che invece è perentoriamente occupato da un’ipotesi globale di revisione dell’organizzazione scolastica pubblica (con quello che tutto ciò comporta in termini di funzioni generali dell’istruzione). La posta in gioco dunque non è la preparazione dei nostri ragazzi, distrutta dalla scuola dell’autonomia, dalla didattica delle competenze, e dai loro improvvisati teorici, ma la semplice rimozione delle ultime tracce di quel peccato originale della Repubblica che nacque conservando le strutture formative della tanto disprezzata Italia liberale. Un odio ideologico, a lungo covato soprattutto nelle pieghe di un certo risentimento cattolico e che oggi torna baldanzosamente in auge, sospinto, per un’ironia della sorte che certo i nostri fanatici non sono in grado di cogliere, dalla dilagante cultura protestante della nostra tarda modernità.

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