Se chi guida l'Inps non sa di informatica

di Giorgio Ventre
Giovedì 2 Aprile 2020, 23:34
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La notizia è che mercoledì il sito web dell’Inps, nel momento in cui è stata aperta la procedura per la concessione del bonus di 600 euro per i lavoratori autonomi, è crollato. 

Probabilmente sotto il peso di migliaia e migliaia di domande presentate in contemporanea da cittadini e professionisti. Ma non prima di avere esposto decine di dati relativi ad altrettanti cittadini che avevano presentato la domanda qualche istante prima. Una giornataccia per l’Inps e per i suoi massimi dirigenti. Che si sono affannati a giustificare l’accaduto, arrivando a dare la colpa a non meglio identificati hacker. In barba al fatto che da un punto di vista tecnologico, quanto accaduto mal si accorda con l’intrusione di un pirata informatico, o di una qualche potenza straniera, ipoteticamente interessata a boicottare il nostro welfare. 

In realtà, nonostante il possibile fascino legato alla voglia di trovare una ragionevole spiegazione di quanto accaduto, la questione tecnologica oggi interessa molto poco. Temo che sia davvero secondario capire se il sito del principale ente previdenziale e pensionistico in Italia ed uno dei più grandi in Europa sia caduto sotto il peso dell’ansia di tanti cittadini in preda ad una feroce crisi economica o se c’è di mezzo il confronto Est – Ovest. Anche perché in entrambe le ipotesi, quello che appare chiaro è un problema di ben più grave natura: quello della adeguata preparazione dell’INPS e più in generale dello Stato nel gestire processi di queste dimensioni in situazioni sia normali che, appunto, di emergenza. 

Secondo il Vocabolario (on-line, ovviamente) della Treccani, il primo significato che è associato al termine “emergenza” è quello di “atto dell’emergere; in senso concr., ciò che emerge”. Ossia qualcosa che prima non era visibile e che improvvisamente, per una causa generalmente esterna, si palesa ai nostri occhi. In questi giorni sembra proprio che a causa del Coronavirus, stiano “emergendo” tantissimi problemi nella nostra Società: nella sanità, nella struttura amministrativa, nel funzionamento di enti ed organizzazioni, nel nostro stesso modo di essere cittadini. Problemi che prima ancora di natura tecnologica o infrastrutturale a me sembrano essere innanzitutto di natura culturale ed organizzativa. 

Ma per vedere se è davvero così, come ogni ricercatore che si rispetti parto dall’analizzare il fenomeno più recente e concreto, ossia proprio l’incidente del bonus Coronavirus: qui siamo fortunati perché ci viene in aiuto una frase che la stampa attribuisce al direttore generale dell’ente, che sembra abbia detto “Io mi occupo di organizzazione, non di informatica”. Che mi sembra sinceramente una prova schiacciante, una situazione di quelle che nei film americani ambientati in un tribunale vedono l’accusa stropicciarsi le mani e l’avvocato difensore cominciare a sudare freddo: il direttore generale di un ente pubblico di quelle dimensioni, che ha il compito di erogare e controllare la previdenza per milioni di cittadini ed imprese, crede che nel 2020 l’organizzazione sia qualcosa che non debba tenere conto dell’informatica. Se non è una prova di un problema culturale e, conseguentemente, organizzativo questo, cosa può esserlo. Con questa premessa, non poteva esserci altro risultato. Anzi, diciamo che siamo stati fortunati che, fino ad oggi, gli utenti dell’Inps abbiano sofferto solo della incredibile macchinosità delle procedure telematiche offerte e la scarsa chiarezza del sito. 

Purtroppo di casi da studiare di questo genere ce ne sono a bizzeffe: penso al commissario Arcuri che si lamenta della virtuale impossibilità di coordinarsi con altre agenzie dello Stato nel suo lavoro difficile e fondamentale di procurare le risorse per combattere il virus e di consegnarle rapidamente a chi ne ha bisogno in prima linea. Ma davvero ci stupiamo di queste difficoltà se nel nostro Paese ci sono 20 sistemi informativi sanitari differenti, 20 protezioni civili regionali, oltre a centinaia e centinaia di soggetti che in maniera autonoma o semi autonoma si occupano di salute? Se le imprese di beni e di servizi in Italia vengono catalogate dai famosi codici Ateco che non fanno la differenza tra chi produce respiratori per terapia intensiva e chi invece fa ecografi? E chi fa mascherine chirurgiche è accomunato a chi produce materiale per radiografie?

Che sia un problema di organizzazione è evidente ma è altrettanto evidente che sia un problema di inadeguatezza culturale di buona parte della classe dirigente del Paese. Crediamo di vivere nella Società dell’Informazione e dei Dati ma questi dati non siamo in grado di raccoglierli, di condividerli, di elaborarli, di metterli a disposizione dei cittadini e delle imprese, men che meno dello stesso Stato. Un problema che è enorme nel pubblico ma che trova tantissimi esempi nel privato, come può testimoniare chiunque abbia litigato con servizi clienti macchinosi, o abbia perso tempi enormi per un rimborso, o che ancora oggi riceva richieste di fax se non addirittura di invio di raccomandate AR. 

Dobbiamo cambiare questo stato di cose, immettendo nelle nostre organizzazioni, pubbliche o private che siano, una iniezione robusta di cultura digitale, di tecnologia, di propensione all’innovazione nel senso più ampio possibile. 
Fortunatamente non dobbiamo partire da zero: ci sono tanti esempi di enti e di aziende che stanno cambiando e che continuano a cambiare fornendo ai cittadini servizi e prodotti sempre nuovi ed utili. Ci sono territori che investono nelle competenze dei giovani, che supportano l’innovazione nelle imprese. Che fanno crescere start-up con idee che possono fare la differenza e che in questa crisi ti chiamano ogni momento per poter dare una mano. Partiamo dai nostri talenti, dando loro spazio e fiducia, e non potremo che far bene.


 
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