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Il Mattino

Se i giovani non crescono tra studio e occupazione

di Enrico Del Colle
Articolo riservato agli abbonati
Giovedì 1 Giugno 2023, 23:45
4 Minuti di Lettura

È importante ascoltare i giovani. Quante volte abbiamo sentito e/o letto questo “invito”, volto a prestare attenzione alle domande che provengono dal mondo giovanile. Diciamo subito che in questo periodo, caratterizzato da flussi informativi a dir poco impetuosi su tanti eventi e problemi, spesso però confusi e talvolta anche discordanti, appare irrinunciabile per un giovane accrescere le proprie conoscenze, con l’obiettivo di orientarsi meglio nelle situazioni da affrontare e nelle decisioni da prendere.

Il primo “passaggio” per arricchire il bagaglio conoscitivo è rappresentato dalla Scuola e dall’Università, cioè quegli Istituti che non sono soltanto luoghi di saperi, ma “mediatori” di conoscenze; c’è da chiedersi però se tale complesso educativo sia in grado di raggiungere un risultato così rilevante e, al tempo stesso, molto impegnativo. Qualche dato chiarificatore: innanzitutto rileviamo che la quota dei giovani (tra i 20 e i 24 anni) in possesso di un titolo di scuola media superiore è pari a poco meno dell’85% (circa 2,5 milioni di ragazzi/e) – in linea con la media Ue, fonte Eurostat - e più di un diplomato su due possiede un diploma di istruzione tecnica professionalizzante (con piccole differenze territoriali, fonte Istat). Questa realtà sembra contrastare con il luogo comune secondo il quale in Italia sono scarse le competenze tecniche (è di questi giorni la notizia che il mondo imprenditoriale ha difficoltà a reperire figure professionali con competenze tecnico-scientifiche, con particolare riguardo a quelle digitali di base), mentre la realtà appare più confortante.

Una situazione significativamente differente, invece, si presenta ai nostri occhi se entriamo nel mondo universitario: infatti, mentre la percentuale media dei laureati in Europa supera il 40%, in Italia non arriva al 30%; anche il peso dei laureati in materie scientifiche (le cosiddette lauree Stem) assume valori diversi (in Italia siamo intorno al 15% e la media Ue supera abbondantemente il 20%, fonte Eurostat).

Cosa c’è dietro questi numeri? Ci sono tanti aspetti da commentare, ma c’è in particolare la consapevolezza che al crescere dell’apprendimento aumenta il divario con gli altri Paesi europei; è su questi temi che i giovani devono porre la loro attenzione ed il loro interesse – chiedendo a gran voce un maggior impegno delle Istituzioni verso percorsi formativi più interessanti e più attrattivi - magari manifestando anche con la stessa passione e con lo stesso ardore con cui si rivelano per la crisi climatica, non sempre con metodi condivisibili (a proposito di cambiamenti climatici, pure in questo caso il titolo di studio fa la differenza visto che al crescere del livello di istruzione aumenta il numero di coloro che abitualmente adottano comportamenti ecocompatibili come, ad esempio, quello di acquistare prodotti biologici, di leggere le etichette dei prodotti e di non sprecare acqua e energia, fonte Istat).

Poi c’è il “valore protettivo” della laurea, nel senso che aiuta non poco a trovare un lavoro, spesso anche ben retribuito. E qui ci immettiamo sul secondo “passaggio” per incrementare il corredo di conoscenze: il tasso di occupazione dei laureati (tra i 30 e i 34 anni di età) in Italia è pari a poco più dell’80% (con media Ue che sfiora l’88%), mentre tra i diplomati non arriva al 70% (media Ue vicina all’80%). Alla luce di questa situazione, una domanda è immediata: i giovani sono al corrente di come sta evolvendo il mercato del lavoro? Prima di addentrarci nel complesso “pianeta Lavoro” registriamo con soddisfazione come l’occupazione sia cresciuta in questi ultimi mesi raggiungendo livelli record (sopra i 23 milioni, fonte Istat), ma con alcune distinzioni meritevoli di meditata riflessione.

L’elemento di maggiore interesse attiene alla durata del contratto: ebbene, l’occupazione a tempo determinato rappresenta in Italia più del 16% del lavoro dipendente (era il 12% venti anni fa) con media Ue non molto distante (14%); se disaggreghiamo per durata, appuriamo come quella più frequente non è superiore a 6 mesi (quasi il 50%, con media Ue intorno al 35%). Con riferimento all’età, sono i più giovani ad essere coinvolti con il 60% degli under 24 e con il 30% per coloro con età tra i 25 e i 34 anni (in Europa i pesi sono rispettivamente del 50% e del 20%).

Dunque, anche questo aspetto ci allontana dall’Europa (pure in termini di disuguaglianza salariale), spiegando, seppur in parte, la cosiddetta “fuga dei cervelli” e non è un caso che il premier Meloni ha tra le sue priorità quella di incentivare le assunzioni a tempo indeterminato, soprattutto se continuiamo a crescere. Insomma, in un Paese dove tra il primo trimestre 2023 e lo stesso del 2022, il Pil è cresciuto dell’1,9%, le esportazioni del 2,1%, i consumi delle famiglie del 3,4% e l’inflazione è scesa a maggio al 7,6% su base annua (era al 10% ad inizio 2023, fonte Istat), deve essere trasmesso un cauto ma incoraggiante segnale di ottimismo alla nostra gente e, in particolare, ai nostri ragazzi.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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