Se la mafia torna a uccidere a New York

di Isaia Sales
Giovedì 14 Marzo 2019, 22:33
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Nella mafia americana come in quella siciliana, nella ‘ndrangheta come tra i clan di camorra, si ammazza un capo solo quando ne sta emergendo uno nuovo che non vuole aspettare i tempi lunghi della successione. È probabile, dunque, che questa sia la motivazione alla base dell’omicidio di Frank Calì, il capo della famiglia Gambino ucciso l’altra sera a New York davanti a casa sua. E un’ipotesi del genere è suggerita dal fatto che nello stesso giorno è uscito assolto da un processo J. Cammarano Jr., boss della famiglia Bonanno, e pochi giorni prima è morto in ospedale (all’età di 85 anni) Carmine Persico, il boss della famiglia Colombo, che con quella Lucchese e Genovese forma da tempo la gestione a cinque dell’eredità e degli affari della mafia siculo-americana. 
Da quasi 35 anni non si verificavano negli Usa delitti eccellenti all’interno delle famiglie mafiose. E proprio per questo motivo, il delitto sta suscitando discussioni e timori per una possibile spirale di violenza. La lunga pax mafiosa non era stata scelta autonomamente dalle cinque famiglie come strategia per svolgere con più tranquillità i loro affari, ma era stata in qualche modo imposta dalla dura repressione delle forze dell’ordine e della magistratura che avevano inferto dei duri e ripetuti colpi ai vertici dell’organizzazione, prima fra tutti l’arresto e la condanna all’ergastolo dell’ultimo capo della famiglia Gambino, quel John Gotti che aveva riattivato il fascino da cui i mafiosi sono sempre stati circondati nella società americana. Ed era stato proprio Gotti il mandante dell’ultimo clamoroso omicidio di un componente del vertice mafioso, quello di Paul Castellano, che era il reggente della famiglia dopo la morte di Carlo Gambino, il boss discreto e mediatore a cui pare si fosse ispirato Il padrino di Puzo e l’omonimo film di Coppola. Da tempo ormai la mafia siculo-americana non ha più il potere e il controllo di vasti affari che ne aveva caratterizzato la storia già alla fine dell’Ottocento e in maniera più accentuata durante il periodo del cosiddetto «protezionismo» (divieto di produrre e consumare alcool) ma continua ad esercitare un ruolo nei traffici di stupefacenti dovendo fronteggiare una concorrenza agguerrita di altre formazioni criminali e soprattutto delle violentissime gang giovanili latine. Ma ha sempre mantenuto una complessa e intensa relazione con la «ditta» di origine da cui è stata influenzata e che ha a sua volta influenzato.
Alla fine dell’Ottocento milioni di italiani emigrarono negli Stati Uniti. Tra questi moltissimi provenivano dal Sud e tanti dalla Sicilia. Nel giro di pochi anni nacque la mafia americana con basi a New York, a New Orleans e poi a Chicago. L’opinione pubblica statunitense era convinta che all’origine del fenomeno criminale ci fosse il carattere violento degli italiani e in particolare dei siciliani, il loro modo di pensare, il loro livello inferiore di civiltà, e montò una campagna di stampa contro i «dago» (così venivano definiti gli italiani di pelle olivastra) che avevano immesso nella ricca, civile e tranquilla società americana i germi mafiosi. Ma qualcosa non funzionava in questo rozza associazione tra emigrazione e crimine. In Argentina, dove pure nello stessa epoca storica erano emigrati lo stesso numero di italiani e meridionali, non si produsse nessun fenomeno mafioso. Eppure venivano dalle stesse terre, dalle stesse regioni, a volte dagli stessi paesini da cui provenivano anche quelli finiti negli Usa. Non si voleva intendere che alla base del successo delle mafie c’è sempre una domanda e una offerta di servizi criminali. Non basta che si offra la violenza, ma è necessario che qualcuno la richieda come mezzo di arricchimento e di successo negli affari e nelle altre attività umane di potere. E negli Usa in quel periodo storico la violenza era una merce richiesta dagli stessi americani e non solo dagli immigrati. Lo stesso si può dire oggi di ciò che sta avvenendo nel Nord d’Italia dove si stanno riproducendo fenomeni criminali a ridosso delle arre di immigrazione dal Sud. E anche a proposito della «nazionalizzazione» delle mafie in Italia non si capirebbe niente di quanto sta avvenendo se non si riflette sul fatto che il successo della ‘ndrangheta, ad esempio, avviene laddove c’è un’economia che richiede servizi illegali per poter competere. 
Ma torniamo agli italiani negli Usa. I meridionali, e in particolare i siciliani, non furono i soli a monopolizzare la violenza di potere. In verità mai i mafiosi siculo-americani hanno avuto il monopolio del crimine negli Usa ma hanno sempre dovuto fronteggiare altre bande non di origine siciliana né italiana, stabilendo con loro un rapporto di scontro-alleanza che ha segnato la storia americana tra la prima e la seconda guerra mondiale. Infatti anche gli irlandesi e gli ebrei diedero origine a fenomeni criminali di grande successo. 
In un libro stimolante, Mafie in movimento, Federico Varese ha ricostruito le tappe delle diverse emigrazioni e l‘impatto criminale diverso che si produsse. Gli irlandesi arrivarono negli Usa attorno al 1840, dopo la spaventosa carestia che aveva colpito la loro terra d’origine. Gli ebrei arrivarono attorno al 1880 dall’Europa orientale per sfuggire ai numerosi «pogrom» (violenti e improvvisi eccidi) e all’odio razziale che li aveva sempre accompagnati. Gli italiani giunsero più tardi, precisamente tra il 1876 e il 1915; all’inizio della prima guerra mondiale già 370.000 nostri connazionali abitavano a New York, per l’80 % meridionali. I nostri emigrati arrivarono nella Grande Mela in un periodo in cui gli altri gruppi etnici avevano messo già solide radici e occupato i ruoli migliori che offriva il mercato del lavoro. Insomma gli Usa hanno dato spazio e occasione di riuscita a diverse forme criminali plurietniche. Cosa che, ripeto non è avvenuto in Argentina, pur essendo la nostra la nazionalità dominante fra gli immigrati fino alla prima guerra mondiale. I motivi di questo esito diverso sono difficilmente riassumibili in un articolo, ma si può tranquillamente affermare che non è detto che ogni fenomeno migratorio di massa produca di per sé criminalità, e quando invece si producono reti criminali esse sono sempre sostenute da una domanda locale di servizi mafiosi.
Incise molto, com’è noto, il divieto di consumo dell’alcool negli Usa che aprì un enorme e ricco mercato ai criminali. E oggi incide moltissimo il grande consumo di droga. Le mafie rappresentano sempre «una tragica, forsennata, crudele vocazione alla ricchezza», come ricordava Rocco Chinnici. E le strade per l’arricchimento le trovano nelle realtà più sviluppate piuttosto che nei luoghi da cui provengono. Oggi come ieri. Negli Usa come nel Nord d’Italia.
 
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