La Shoah secondo Hitchcock

La Shoah secondo Hitchcock
di Fabio Ferzetti
Domenica 18 Gennaio 2015, 21:30 - Ultimo agg. 19 Gennaio, 00:10
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Potrebbe sembrare uno scherzo macabro, invece è andata proprio così. Il primo spettatore delle immagini riprese dagli alleati nei lager nazisti fu il regista del brivido per eccellenza: Alfred Hitchcock. Convocato a Londra nel luglio 1945 dal suo amico e compagno di lavoro Sidney Bernstein, un produttore che anni dopo avrebbe fondato la Grenada Television, per dare forma compiuta alle scene terrificanti filmate da operatori militari inglesi, americani e sovietici in undici diversi campi di concentramento tra cui Bergen-Belsen, Buchenwald, Dachau, Ebensee, Mauthausen e Majdanek.

Nel 1970 lo stesso Hitchcock, in una delle rare testimonianze in materia, ne avrebbe parlato al fondatore della Cinémathèque française Henri Langlois. «Alla fine della guerra ho realizzato un film che doveva mostrare al mondo la realtà dei campi di concentramento. Una cosa atroce. Molto più atroce del peggior film d’orrore. Nessuno ha voluto vederlo. Ma il ricordo di quel film non mi ha mai abbandonato» Sobriamente intitolato German Concentration Camps Factual Survey (Indagine fattuale sui campi di concentramento tedeschi), il documentario supervisionato da Hitchcock non fu mai ultimato per una serie di ragioni anche politiche ed è rimasto sepolto per decenni negli archivi dell’Imperial War Museum di Londra.



Da cui ora è uscito per essere parzialmente incorporato a un film del regista e produttore André Singer, Night Will Fall (Cadrà la notte), coprodotto fra gli altri dall’italiana GA&A Productions, in programma giovedì 22 gennaio alle 22.45 su Rai3. Si tratta di un’appassionante inchiesta che interrogando anche testimoni d’epoca (sopravvissuti, militari, gli operatori stessi), ricostruisce la movimentata storia di quel film interrotto, scomparso anche dalle filmografie del regista di Psycho, ma destinato a turbare HItchcock per tutta la vita. E probabilmente a influenzare in profondità il suo cinema a venire.



MANIPOLAZIONE Già produttore di Werner Herzog e di Joshua Oppenheimer, Singer mostra infatti come la prima preoccupazione di Hitchcock di fronte a quelle immagini ancor oggi insostenibili fosse quella di renderle inattaccabili. Il re del brivido, che amava vantare la sue capacità di manipolazione («Io non dirigo gli attori, dirigo gli spettatori»), sapeva infatti che davanti a orrori di quella portata la reazione più diffusa sarebbe stata l’incredulità. «Non credo che molta gente sia disposta ad accettare la realtà, a teatro come al cinema», disse sempre a Langlois. «Le cose devono solamente sembrare vere, nessuo è disposto ad affrontare la realtà troppo a lungo».



Il rischio di quelle immagini, in altre parole, era semplicemente di esser considerate trucchi, messa in scena. Per questo, come ricorda il montatore Peter Tanner, Hitch cercava inquadrature lunghe e continue, senza stacchi. «Mostrare con un solo movimento di macchina un gruppo di notabili e di ecclesiastici chini sopra le montagne di cadaveri, significava proteggere il film da ogni possibile accusa», dice Tanner in Night Will Fall. È appena il caso di ricordare che pochi anni dopo, tornato a Hollywood, avrebbe girato Nodo alla gola, virtuosistico esercizio di stile a porte chiuse girato in una sola, interminabile inquadratura, che ha per protagonisti due dandy assassini e malati di superomismo.



Ma le preoccupazioni di Hitchcock e Bernstein non erano certo meramente stilistiche. Al grande regista inglese non bastava mostrare le cataste di cadaveri, i corpi scheletriti, i volti sfigurati, le baracche in cui venivano ammassati separatamente gli occhiali, i guanti, le spazzole, i capelli, i denti, i pennelli da barba e perfino i giocattoli dei deportati, che non sospettando il loro destino spesso portavano con sé quanto avevano di più caro. No, Hitchcock voleva inserire tutti quegli orrori in un contesto. Ricordare che accanto a quei luoghi di morte, evidenziati con mappe e cartine nel film originario, si stendevano floride campagne o ameni luoghi di villeggiatura come Ebensee. Voleva ricordare che tutt’intorno c’erano famigliole felici e indifferenti. chiamate anche a sfilare nei lager perché vedessero con i loro occhi, come mostrano rare e terribili scene a colori.



GUERRA FREDDA In breve, come riassume Bernstein nelle sue linee guida, accumulare prove. Ben sapendo che prima o poi qualcuno avrebbe messo tutto in dubbio e magari parlato di montatura, o addebitato tutto a una minoranza di tedeschi, come sarebbe accaduto. Si capisce che una requisitoria tanto implacabile (Bernstein pensava di strutturare il lavoro come un processo) potesse fare paura. E in effetti, con il prolungarsi del montaggio e il mutare del quadro politico, il film si arenò. I finanziamenti si bloccarono, l’America fece pressioni per affidare tutto a un altro grande, l’austriaco Billy Wilder, che avrebbe sfornato un banale corto di propaganda, Death Mills.



Inoltre non si voleva calcare troppo la mano contro la Germania, che rischiava di non riprendersi dal doppio trauma, disfatta e scoperta dei lager.
E con la Guerra Fredda alle porte sarebbe stata presto un utile alleato. Per non parlare del timore, insinuato da Bernstein, che quelle immagini eccitassero ulteriormente la causa degli ebrei diretti in Palestina, allora protettorato britannico. Ma dietro tutta questa vicenda c’è anche un’altra grande lezione, terribilmente attuale. L’eterna, paradossale paura delle immagini in movimento.
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