La morte in diretta non è uno show

di Carlo Nordio
Sabato 19 Giugno 2021, 00:00 - Ultimo agg. 08:17
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La televisione pubblica ha mandato in onda i momenti finali e fatali della funivia del Mottarone. Sono immagini agghiaccianti, che hanno sollevato perplessità e proteste. Non si è insistito in questa diffusione, che peraltro è stata recepita dai social, e quindi è diventata indelebile. Così tutto il mondo può vedere la morte in diretta di quegli sventurati passeggeri. Il che ci induce ad alcune riflessioni.

La prima riguarda l’aspetto giuridico e più in generale civile. Quel video - registrato dai monitor dell’impianto - è stato sequestrato su disposizione della magistratura e costituisce quello che si chiama un documento di prova. Come tale esso deve esser messo a disposizione delle parti, indagati e parenti delle vittime, affinché facciano valere le proprie ragioni. E’ invece assai discutibile se esso possa essere consegnato a terzi, e tantomeno pubblicato. Secondo il nostro codice parrebbe di no. Secondo la prassi parrebbe di si. Il fatto è che tanto il primo quanto la seconda sono dannatamente ambigui e contraddittori, e nessuno sa realmente quale sia la regola valida. Il risultato è che alcuni diritti costituzionali, come la segretezza delle conversazioni e persino del nostro stato di salute sono andati a farsi benedire. Sul fatto che le nostre chiacchierate intime finiscano subito sui giornali abbiamo già scritto fino alla noia. Resta da aggiungere che persino la nostra cartella clinica può essere, e spesso è, esibita al prossimo.

Quando, ad esempio, in un processo di malpractice medica questo documento viene allegato al fascicolo processuale, perde ogni segretezza, e chiunque voglia può di fatto accedere all’intera anamnesi, cioè alla storia sanitaria, del paziente. Se si pensa che solo per la vaccinazione bisogna firmare pacchi di carte per la tutela della privacy, e poi quest’ultima viene clamorosamente violata su argomenti ben più sensibili, questo rende l’idea dello sfascio del nostro sistema giuridico in genere e di quello penale in specie. Va da sé che in questi casi, così come per la funivia del Mottarone, la libera informazione non c’entra nulla. L’inserimento di un documento negli atti giudiziari non ne giustifica per ciò stesso la pubblicazione, altrimenti dovremmo ammetterla anche per le foto allegate ai processi per pedopornografia. Il legislatore queste cose le sa, ma tace. 

La seconda, ancora più importante, riguarda l’aspetto umano. Fotografie e film di eventi drammatici sono sempre esistiti da quando sono nate queste forme di ripresa. Tuttavia vi sono dei criteri che le rendono assai diverse tra loro. Innanzitutto il tempo.

Vedere le immagini del terremoto di San Francisco non è come veder quelle di Bergen Belsen o delle torri gemelle che cadono. E anche per queste ultime, dopo vent’anni, la memoria è così affievolita che si guardano con indifferenza. Così è fatta la natura umana. Il tempo non è solo padre di verità, ma anche di oblio e di assuefazione. Poi c’è il cosiddetto contesto. Generalmente noi non vediamo essere umani morire. I campi di sterminio ci mostrano mucchi infernali di cadaveri, ma non è la stessa cosa: i poveretti sono ritornati nel seno di Abramo, o della madre terra, a seconda delle credenze, ma hanno finito di soffrire. Certo, si vedono anche detenuti ridotti a larve umane: ma per questi c’era sempre la speranza di una miracolosa sopravvivenza. In ogni caso il momento fatale non è ripreso quasi mai.

Infine la personalità delle vittime. I pochi filmati che documentano una morte in diretta riguardano generalmente l’esecuzione di criminali di guerra. La più raccapricciante è quella di Amon Goth, il boia di Plaszow, che Steven Spielberg ha rievocato nella sua Schindler’s List. Nel film la sua impiccagione sembra difficoltosa. La realtà fu assai peggiore: la botola sopra la quale era collocato si aprì, ma la corda non si tese; l’operazione fu ripetuta ma il condannato cadde male; solo al terzo tentativo fu fatta giustizia. Tutto ciò chiunque può vederlo su YouTube. Lo stesso per le esecuzioni di alcune spie, del questore Caruso e di Galeazzo Ciano. In questi casi noi vediamo persone che stanno per morire, e sappiamo che loro lo sanno. Se la loro esecuzione non ci turba più di tanto, è perché le ragioni prima esposte si cumulano: è passato molto tempo, molte di loro meritavano quella sorte, e soprattutto erano preparate a subirla. Non è un buon motivo per godersi quelle immagini, ma nemmeno per perderci il sonno.

Per la funivia del Mottarone è tutto diverso. I fatti sono di ieri, quelle vittime erano innocenti e soprattutto erano ignare di quanto sarebbe accaduto. Ignare fino al momento in cui la fune si rompe, perché negli attimi che seguirono ebbero il tempo per comprendere che stavano per morire. Noi invece tutto questo lo sappiamo in anticipo, e mentre vediamo la cabina avvicinarsi alla fermata assistiamo impotenti alla sua progressiva e rovinosa caduta. E non nelle immagini sbiadite dei documentari bellici, ma a colori, in alta definizione e in tempo reale. Una buona occasione per farci riflettere sui limiti del cosiddetto diritto all’informazione e sugli sconfinamenti nell’ambito della morbosa curiosità.

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