Su Israele incombe la rivolta etnica

di Fabio Nicolucci
Mercoledì 12 Maggio 2021, 23:30
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Che le radici dei tragici avvenimenti in Israele, Gaza e Cisgiordania stiano soprattutto nel catastrofico fallimento di tutte e tre le leadership coinvolte – la destra di Netanyahu, Hamas e pure la decrepita leadership dell’Olp – lo si può osservare dal loro smarrimento. Che è poi rapidamente diventato generale. Quando infatti come oggi la domanda - anche degli Stati Maggiori – riguarda il “perché” e non il “come” o il “quando”, vuol dire che si reagisce a degli avvenimenti piuttosto che guidarli.


A Gaza, dopo aver provocato Israele con ripetuti lanci di razzi, Hamas adesso cerca affannosamente una tregua per evitare l’inevitabile reazione di autodifesa e soprattutto l’escalation verso una guerra. In Cisgiordania, la popolazione palestinese, stretta tra mancanza di Stato e coloni aggressivi, è in cerca di qualcuno che si interessi ad essa piuttosto che alle proprie poltrone o fortune. In Israele invece ci si domanda “Come è possibile che ciò che pensavamo essere una disputa immobiliare a Gerusalemme sia oggi diventata una guerra?”.


Ma forse la vera domanda da farsi per gli israeliani e per chi ama questo paese, se si vuole che almeno alcune delle cause delle tensioni tra arabi ed ebrei si risolvano non in una guerra etnica ed in una intifada interna, dovrebbe essere “ dobbiamo preoccuparci più dei razzi da Gaza o della violenza settaria all’interno di Israele?”.

Ciò che sta infatti succedendo in Israele è molto più pericoloso per la tenuta della nazione dei razzi sparati da Hamas, che comunque avranno inevitabile e giustificata reazione. Mentre infatti piovono razzi dal cielo, ciò che è cominciato come tensioni locali a Gerusalemme si è rapidamente propagato alle città a prevalenza araba o miste arabo-ebraiche in tutta Israele. 


L’elenco agghiacciante degli incidenti, dall’assalto di arabi israeliani alle sinagoghe di Lod, dove un terzo della popolazione è di etnia araba, fino al cittadino di etnia araba Moussa Hassouna linciato per vendetta nella stessa città, fa suonare un campanello d’allarme sulla pericolosità della situazione molto più forte di una sirena di allarme aereo. Scene simili si sono veficate perfino nella pittoresca Jaffo, alle porte di Tel Aviv. E siamo fuori dal cosiddetto “triangolo arabo” di Nazaret nel nord. Si parla della tradizionalmente tollerante e mista Haifa. Si parla di Ramat Eskhol, e di Ramla. Di blocchi stradali improvvisati negli snodi autostradali, di amicizie pluridecennali tra cittadini israeliani di diverse etnie che si rompono. 


Tanto da preoccupare, e molto, i partiti a carattere arabo presenti nella Knesset (il Parlamento israeliano, ndr.) come la Lista Araba Unita di Mansour Abbas e la Lista Unitaria di Aymen Odeh. “La protesta della comunità araba – ha dichiarato Mansour Abbas, il cui successo elettorale alle ultime elezioni lo ha fatto corteggiare da tutti, compreso Netanyahu – si sta sviluppando in una direzione pericolosa, puntando decisa verso la violenza”.

Un grido di allarme ripreso da Odeh, che ha stigmatizzato l’attacco su civili innocenti, da qualunque parte vengano, e invitato tutti alla responsabilità.


Sono dichiarazioni che andrebbero prese molto sul serio. Non solo perché vengono da due partiti della stessa etnia ma di diversa ispirazione, uno islamista e tendenzialmente conservatore, e uno più progressista e laico.

Ma soprattutto perché vedono probabilmente prima i guasti del virus della divisione etnica inoculato nel corpo della nazione dal sionismo di Netanyahu. Un sionismo molto diverso da quello dei padri fondatori socialisti, che era inclusivo e “politico”, e che non a caso non hanno mai voluto una Costituzione scritta che irrigidisse l’identità ebraica di Israele in steccati etnici. Un sionismo identitario e settario, quello di Netanyahu, che ha voluto proprio nel 2018 incastonare in una “legge della nazione” l’identità ebraica dello Stato, con l’effetto di far sentire fuori posto tutte le altre minoranze. Facendo dell’ebraico la sola lingua ufficiale dello Stato, dove fino al 2018 anche arabo e inglese avevano la stessa dignità, con l’orgoglio di tutti. E sollevando una furiosa protesta per esempio tra i drusi, fino ad allora cosi leali allo Stato d’Israele da costituire l’ossatura delle unità delle forze speciali dedite alla ricognizione e al lavoro sotto copertura. Da allora le fratture si sono aggravate.

Leggi, regolamenti, mancanza di fondi e lacciuoli anche edilizi hanno teso sempre più a soffocare la minoranza degli arabi israeliani, anche perché era cambiata la loro dignità nazionale. Non deve sorprendere allora che una semplice disputa edilizia di palestinesi di Gerusalemme est, nel limbo tra essere né pienamente profughi né pienamente israeliani, abbia dato fuoco alle polveri di una protesta etnica tanto pericolosa per l’unità e dunque la forza della nazione israeliana quanto già scritta nei suoi ultimi provvedimenti di legge.

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