Sud, il salto della rana per il rilancio

di Stefano de Falco
Giovedì 14 Novembre 2019, 22:34
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Come nella favola di Esopo, i “buoi” del Sud vanno avanti senza lamentarsi, rispetto alle “ruote” del Nord caratterizzate da minor attrito! Eppure, a tirar l’economia del Nord sono proprio i giovani del Sud, visto che dall’inizio del nuovo secolo hanno lasciato il Sud in 2 milioni, la metà dei quali under 34. È questa la fotografia scattata dall’ultimo Rapporto Svimez pubblicato pochi giorni fa. Il Mezzogiorno si allontana ancora dal Centro-Nord sotto il profilo dell’occupazionale e nel 2019 è entrato in recessione. In realtà, alcuni dati stridono con tale scenario. 
Ad esempio, quelli che raccontano di un fermento giovanile di attività innovativa. Napoli, in particolare, si attesta, infatti, al terzo posto nella classifica delle città per numero di startup innovative, con la consistenza di oltre 300 imprese tra il capoluogo e la provincia, di cui diverse con fatturati molto rilevanti.
Come creare, pertanto, discontinuità rispetto a questo trend negativo di abbandoni di giovani spesso talentuosi e istruiti fino ai livelli più alti di formazione? Una possibilità può essere quella di guardare alla evoluzione di certi paesi emergenti, come ad esempio alcuni stati dell’Africa caratterizzati da una popolazione molto giovane e incline all’uso delle nuove tecnologie, o come le economie asiatiche di recente industrializzazione, tra cui quelle relative a Corea del Sud, Singapore e Taiwan, che attraverso investimenti in tecnologia sono state in grado di effettuare con successo il passaggio dall’agricoltura tradizionale e dalla economia basata sulle risorse primarie, ad una economia avanzata basata sulla conoscenza.
Governi e organizzazioni internazionali, come ad esempio l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), hanno infatti da tempo riconosciuto il ruolo centrale della tecnologia nella promozione della produttività e dello sviluppo economico soprattutto in aree caratterizzate da indicatori di marginalità. 
In tale direzione le più recenti teorie geo-economiche suggeriscono diverse strade alternative che le aree territoriali più svantaggiate possono intraprendere. Un primo scenario strategico possibile quello di imitare pedissequamente tutti i passi di sviluppo già percorsi da regioni avanzate; una seconda strada è quella di saltare alcuni passi del percorso di players leader; e, infine, una terza via è quella di saltare i passi costruendo un percorso proprio basato sull’utilizzo delle tecnologie di ultima generazione secondo declinazioni specifiche del contesto e indipendenti da riferimenti territoriali più evoluti. La prima opzione ha il vantaggio di bassi costi di recupero derivanti dalla adozione di tecnologie che i precursori, ormai caratterizzati da bassa produttività rispetto ad aree emergenti, non desiderano più mantenere, ma tempi troppo lunghi, soprattutto in relazione ai mandati politici. La seconda via si rivela essere un approccio costoso e comunque soggetto alla concorrenza del detentore storico di quella tecnologia. La terza opzione è quella che prevede per i territori più arretrati, ad esempio dal punto di vista della occupazione come reso evidente dal rapporto Svimez, un impiego personalizzato delle tecnologie di ultima generazione senza passare per gli stadi precedenti, prefigurando uno scenario scevro da incombenti. Ed è questo il cosiddetto “leapfrogging”, il salto della rana, un balzo in avanti verso soluzioni innovative radicali e non ancora sperimentate. Per realizzare tale salto occorrono due ingredienti fondamentali, le risorse dinamiche in gioco, ed il Mezzogiorno ne dispone in abbondanza, e un impegno di tutti gli attori istituzionali nella co-creazione di valore culturale delle nuove generazioni in termini di istruzione e conoscenza. A tal guisa, scriveva Tinbergen “L’insegnamento va considerato come un moltiplicatore d’impiego e come una macchina utensile, che trasforma mediocrissimi messi di produzione in produttori di efficienza superiore”.
La letteratura è concorde nel ritenere che le aree depresse hanno finestre di opportunità per raggiungere o addirittura scavalcare i precursori, o quando riescono ad imprimere nei loro contesti un cambiamento paradigmatico basato sulla tecnologia derivante da una dirompente discontinuità in termini di crescita della domanda del mercato, o per una marcata azione degli attori istituzionali. Durante questa finestra di opportunità, i territori caratterizzati da differenziali positivi di sviluppo si trovano generalmente nella condizione che li vede vincolati alle tecnologie esistenti, nonché alle conseguenti routine istituzionali e pratiche di lavoro, mentre i nuovi arrivati, sgravati da tali oneri per ritardo da marginalità, risultano in grado di saltare le tecnologie esistenti per adottare quelle più recenti atte a catturare le nuove richieste del mercato. Ovviamente, la creazione di percorsi specifici è rischiosa in quanto l’implementazione di nuova tecnologia nell’early stage risulta affetta da incertezza, bassa stabilità e costi elevati (anche se rapidamente decrescenti).
Se, pertanto, da un lato va riconosciuto una sorta di potere annichilente delle tecnologie, d’altra parte va anche rilevato che questo ha esternalità positive nella disintegrazione di retoriche e luoghi comuni, che nel caso del Sud risultano profondamente radicate. Per cui un Mezzogiorno produttivo che genera e fruisce della nuova economia della conoscenza non solo è auspicabile ma è anche possibile. Se la “necessità è la madre delle invenzioni”, come scriveva Yves Lacoste nella sua opera “Geografia del Sottosviluppo”, le aree già fortemente sviluppate caratterizzate, peraltro, da una popolazione più vecchia meno stimolata a nuovi livelli di avanzamento tecnologico e produttivo, non hanno urgenza di adottare nuove tecnologie come invece può e deve avvenire in territori più svantaggiati costretti a subire passivamente i fenomeni di spopolamento in corso.
 
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