Sud, il voto «contro» e le responsabilità che aspettano il M5s

di Isaia Sales
Martedì 20 Marzo 2018, 22:38
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Quando il Sud vota contro le forze governative, automaticamente si fa riferimento a Masaniello e allo spirito ribellistico che alberga inalterato sotto la sua scorza filogovernativa; se invece il Sud continua a votare per il governo e le forze politiche che lo compongono, allora lo si accusa di essere clientelare, assistenziale, pronto a vendersi per un pezzo di pane o per un posto di lavoro. Non c’è niente da fare: o votiamo di pancia o votiamo per rabbia, noi meridionali, sempre in bilico tra Masaniello e l’assistenza. Non entra nella testa degli opinionisti che protestare con il voto per le proprie condizioni di vita è il sale della democrazia; e non si capisce perché mai, se protestano con il voto i meridionali, ciò rappresenti un pericolo. D’altra parte il voto si è indirizzato verso un movimento che non ha un suo sistema clientelare (nel Sud i Cinquestelle non gestiscono potere) ed è, per ora, fortemente caratterizzato contro le clientele e il notabilato politico. Non dovrebbe essere questa constatazione, al di là dei giudizi sui vincitori, un fatto su cui riflettere? Il Sud, in sostanza, ha votato «contro» nonostante il sistema clientelare regionale e locale fosse tutto nelle mani di coloro che si voleva colpire. Non di pancia, dunque, questa volta. È stato, in sintesi, un voto che rivendica una politica pubblica all’altezza dei problemi storici del Sud, nella consapevolezza che si è definitivamente conclusa negativamente la lunga fase del dopo «Intervento straordinario», senza che l’economia meridionale abbia avuto benefici dalle tante politiche con cui si è provato a sostituirlo. Vogliamo almeno riconoscere che di questo si tratta? 

Eppure la Cassa del Mezzogiorno nacque anche per rispondere, oltre ad esigenze solidaristiche, a pressanti problemi di consenso e di salvaguardia dal pericolo che un Sud devastato dalla miseria e dall’arretratezza feudale (com’era ancora gran parte del suo territorio all’indomani della seconda guerra mondiale) potesse rappresentare un pericolo sociale e politico nella divisione del mondo tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Nell’attenta ricostruzione che Francesco Dandolo (docente di Storia economica alla Federico II di Napoli) fa delle origini della Cassa del Mezzogiorno in un importante libro pubblicato di recente da «Il Mulino», Il Mezzogiorno fra divari e cooperazione internazionale, «Informazioni Svimez» e la cultura del nuovo meridionalismo (1948-1960) sullo sfondo ci sono anche queste motivazioni. Il piano di aiuto degli americani, i prestiti internazionali necessari per avviare quella costosa politica pubblica, erano anche sostenuti dalla preoccupazione di non dare spazio ai social-comunisti che in tante parti del Sud rappresentavano una minaccia per i partiti «democratici» e di governo. 

In genere quando si parla di Cassa del Mezzogiorno si associa tale struttura a spreco, assistenza, insuccesso. Niente di più sbagliato sul piano storico, e Dandolo lo dimostra ampiamente: le politiche messe in piedi dalla Cassa del Mezzogiorno sono state politiche di successo. Le degenerazioni sono successive ai primi, intensi, proficui 25 anni. L’Italia ha conosciuto il suo miracolo economico grazie anche a ciò che si andava realizzando nel Sud, in termini di infrastrutture, di servizi essenziali di civiltà, di riforma agraria, di avvio di una veloce industrializzazione, di politiche delle Partecipazioni Statali dettate dall’obbligo di riservare più del 50% degli investimenti nei territori meridionali. Senza questo aiuto all’economia e alla società del meridione non ci sarebbe stato il «trentennio d’oro» che ha proiettato il nostro Paese tra le prime potenze industriali del mondo. Ci fu allora un connubio felice tra sostegno alla parte più arretrata e sviluppo dell’economia più avanzata (quella centro-settentrionale) su cui si riversava in gran parte la domanda messa in moto direttamente e indirettamente (in consumi e in forniture) da quei massicci finanziamenti pubblici. Il Sud del dopoguerra era in condizioni disastrose. Quel poco di apparato industriale concentrato a Napoli e nell’area circostante era stato raso al suolo, con danni di guerra tre volte superiori a quelli del Centro-Nord (cosa di cui ci si dimentica sempre di ricordare), la situazione abitativa allo sfascio, il tasso di analfabetismo alle stelle, le condizioni civili nelle campagne impressionanti. Alle disuguaglianze storiche si erano aggiunte quelle provocate dalla guerra creando una situazione non più sostenibile, uno spaventoso squilibrio tra popolazione e risorse. Fu grazie a ciò che mise in moto l’ istituzione della Cassa del Mezzogiorno che si impedì che quel malessere sociale si aggregasse e si trasformasse in una permanente spina nel fianco della democrazia italiana. E artefice, propulsore e finanziatore di quella politica fu lo Stato. Sì, lo Stato.

Dandolo per ricostruire quella particolare fase della storia dell’Intervento pubblico nell’economia del Sud si serve di tutti i numeri della rivista «Informazioni Svimez», dal 1948 al 1981. Dalla lettura degli articoli si evince la presenza di una comunità intellettuale di altissimo livello, per la maggior parte di formazione cattolica, cementata da uomini come Pasquale Saraceno, sorretta da personalità del peso di Donato Menichella, Alberto Beneduce, Giuseppe Genzato, che sentivano l’impegno per il superamento del divario tra Nord e Sud come un dovere di fede e una possibilità della ragione. E quegli uomini si mossero all’interno del dibattito internazionale sulle aree depresse del mondo, partecipando al confronto scientifico su come affrontare i divari economici tra continente e continente, tra nazione e nazione, e soprattutto all’interno della stessa nazione. Fu un periodo di straordinaria vivacità culturale, di passione politica, di confronto internazionale. Insomma le condizioni di arretratezza storica del Sud d’Italia entrarono a pieno titolo nel dibattito nazionale e internazionale. Questo gruppo di intellettuali sosteneva che non ci si può aspettare il superamento dei divari affidandosi al mercato e agli investimenti privati, che per loro natura puntano sulla maggiore profittabilità derivante dall’investire in aree già sviluppate. Valgono per tutte le parole dell’illustre statistico Guglielmo Tagliacarne: «Non vogliamo entrare a discutere se e in che misura la situazione del Mezzogiorno sia dovuta alla natura, agli uomini, agli eventi, alla politica o ai governi. Per il governo italiano la riabilitazione del Mezzogiorno deve costituire il primo punto e un punto d’onore». 

Consiglio la lettura del libro di Francesco Dandolo soprattutto ai Cinquestelle a cui il Sud ha dato oggi mandato di ricordare che quel punto d’onore l’Italia non lo ha rispettato. Poiché essi hanno stravinto senza peraltro dire cosa vogliono fare per affrontare i problemi del divario economico italiano, la lettura sarà senz’altro di grande aiuto.
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