La dignità e la civiltà giuridica

di Massimo Adinolfi
Mercoledì 24 Novembre 2021, 00:00 - Ultimo agg. 06:00
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Tra i molti diritti fondamentali che oggi riteniamo ci spettino, uno sicuramente non c’è: il diritto di filosofeggiare sulle sventure altrui. Per questo, è così difficile accostarsi alla storia di Mario (il nome è di fantasia), il paziente tetraplegico marchigiano che ha chiesto di poter disporre di un farmaco letale che ponga fine alla sua vita. In verità, sul piano giuridico il punto di svolta c’era già stato, ed è rappresentato dalla sentenza della Corte Costituzionale del 2019 sul caso Cappato-Antoniani.

Il Comitato etico che oggi dà il via libera ha solo verificato che sussistano le condizioni stabilite da quella sentenza per avere accesso legale al suicidio assisitito. Ovvero: l’essere tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale; l’essere affetti da patologie irreversibili, causa di sofferenze fisiche o psicologiche reputate intollerabili; l’essere pienamente capace di intendere e volere; l’essere determinato a rifiutare trattamenti sanitari per il dolore e la sedazione profonda. 

La decisione aiuta a superare, dopo anni, le resistenze opposte dall’azienda sanitaria locale, e mette ancora una volta l’una di fronte all’altra la drammatica storia individuale di un uomo coraggioso e sfortunato, e una tortuosa vicenda fatta di ricorsi, sentenze, pareri, pronunciamenti di giudici e corti, in cui quell’uomo è trascinato per l’assenza di una legge che, dando applicazione alla sentenza della suprema Corte, definisca procedure e modalità di attuazione del suicidio medicalmente assistito. 

In fondo è semplice. Il diritto alla vita e il diritto al rispetto della vita privata implicano che ciascun individuo abbia la possibilità di «decidere con quali mezzi e a che punto la propria vita finirà», così scrive la Corte europea dei diritti dell’uomo: lo Stato, dunque, non può intervenire se non al fine di evitare che soggetti vulnerabili siano indebitamente influenzati nelle loro scelte. Altro non può né deve fare. In particolare, non può incriminare chi presti il suo aiuto a soggetti che, se non fossero impossibilitati dalla loro condizione, si lascerebbero morire «mediante la rinuncia a trattamenti sanitari necessari alla loro sopravvivenza». 

Ho voluto riportare queste ultime parole, prelevate dalla sentenza della Corte, solo per misurare quanto è difficile dire con le parole del diritto quel che capita a una vita. Il fatto che il Parlamento italiano non abbia ancora dato seguito alla sentenza della Consulta rende peraltro tutto maledettamente più complicato, persino penoso, ma non modifica i termini della questione.

Non c’è nulla, però, né nell’ultimo parere rilasciato dal Comitato etico, né nel precedente giudizio di legittimità della Corte costituzionale, che giustifichi il timore che da simili decisioni discenda una banalizzazione del vivere e del morire.

Disporre della propria vita per farne cosa? Decidere se, come e quando morire con la stessa libertà con cui si decide dove andare in vacanza, o dove prendere casa? Legalizzare il suicidio e inventarsi un diritto a morire per barattare tutta la sapienza etica dell’Occidente con un’estetica da videogame? E poi, che altro? La possibilità di vendere e comprare organi, magari, oppure quella di rendersi schiavi, o di organizzare serate alla roulette russa, per provare un brivido in più?

Chi si sente assillato da queste domande, o da altre simili, e pensa che solo l’affermazione della sacralità e indisponibilità del bene supremo della vita possa riuscire a comporre i diritti coi doveri, la libertà con l’autorità, i diritti del singolo con le tutele collettive, sbaglia. La strada che ha scelto la civiltà giuridica moderna, di stampo liberale, è, da tempo, un’altra. E consiste nel dare responsabilità e rilievo alla scelta individuale: non imbrigliarla, e neppure svilirla, ma conferirgli peso e spessore, dandole fiducia e al tempo stessa nutrendola di ragioni, di percorsi deliberativi maturi, di conoscenze personali e acquisite, di esperienze e confronti, di educazione e cultura. Quel che sarà scelto in esito a tutto ciò apparterrà irrinunciabilmente al singolo, ed è bene che sia così, ma quel singolo non avrà deciso idiosincraticamente, ed è bene anche questo. Avrà deciso confrontandosi con i medici, con i familiari, con gli amici, in maniera informata e consapevole: non da solo, non in solitudine. Di questa decisione, di questa libertà ci si può fidare: è questa la scommessa dell’uomo moderno. La stessa che presiede alle aperture che nelle nostre società hanno accompagnato la crescita dei diritti civili, l’evoluzione del diritto di famiglia, le leggi in materia di orientamento sessuale. 

È un cammino in cui ritrovarsi, non una china lungo la quale temere di precipitare. Senza dimenticare tutte le fragilità e i limiti di ogni intrapresa umana, ma senza neppure lasciarsene sopraffare. 

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