Svezia, tecniche di rimozione nel Paese insabbia-scandali

Svezia, tecniche di rimozione nel Paese insabbia-scandali
Svezia, tecniche di rimozione nel Paese insabbia-scandali
di Mario Ajello e Andrea Bassi
Venerdì 5 Aprile 2019, 00:09 - Ultimo agg. 13:58
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dai nostri inviati
STOCCOLMA Non c’è nessuna vetrina rotta e neppure scheggiata, lungo le strade di Stoccolma. Tutto deve apparire intonso, come il Modello Svedese che non c’è più. Ma ci si illude che ci sia. E riesce ad essere abbagliante la luce di questa capitale, gonfia di ombre, come quelle della grande drammaturgia nordica o dei film di Ingmar Bergman. In realtà la vetrina della Svezia è in pezzi. «Swedbank? Succedono anche altrove cose così, perfino peggio».

È la risposta standard nei luoghi di Stoccolma, anche quelli istituzionali, a proposito dell’ultima bomba, quella dello scandalo del maxi riciclaggio dei 135 miliardi degli oligarchi russi che sta facendo tremare la più grande banca di questo Paese. Dove si è sempre favoleggiato di una sorta di supremazia etica (ma lo scandalo sessuale nella accademia reale per i Nobel è accaduto qui o nella vituperata Europa mediterranea?) come frutto del genius loci e questa presunzione dei migliori fa perdere alla Svezia la capacità di guardare dentro il marcio che la coinvolge. Proprio in queste ore l’Eba, la vigilanza europea, ha acceso un faro sul palazzone della banca nazionale svedese, pressando le autorità locali a fare luce su tutti gli intrighi di cui è disseminato il paesaggio di questo Paese.

E tuttavia, non si fa che troncare e sopire: «Uno scandalo nella Swedbank? Ma davvero? Non ne sapevo niente, grazie che ci state avvisando», rispondono così nel salotto buono della capitale, quello precluso agli immigrati (possono stare solo nelle cucine).

SGUARDO ALTROVE
Gli svedesi per lo più guardano altrove. E si tratta di autotutela - la vetrina è troppo presumibilmente perfetta e non va sporcata - che sconfina nell’omertà. C’è una sorta di corrispondenza tra questo enorme tappeto, sotto cui occultare la polvere dei segreti pubblici, e il carattere degli svedesi - riservato fino al parossismo - che nascondono nel proprio intimo ogni criticità personale e sociale. Ma poi la miscela esplode. Ed è un segno di tutto ciò anche il numero dei suicidi, in cui la Svezia primeggia così come nelle classifiche con gli indici d’infelicità personale. Per non dire dell’uso della cocaina: quadruplicato negli ultimi anni. 

«Nella Svezia Infelix tutto non è ciò che appare», dice una studentessa scendendo le scale mobili della metro e guarda caso: spesso non funzionano neanche qui. Ma il mito è un mito, anche se non lo è più affatto, e perfino gli spiriti più acuti dall’Italia ci hanno creduto o hanno fatto finta. Ennio Flaiano, per sottolineare ironicamente l’eccellenza e la perfezione di Kunt, il Marziano a Roma, non aveva scritto che «ha qualcosa di svedese?».

E sempre lui, parlando scherzosamente della sua anomalia di italiano, osserva nella Solitudine del satiro: «Leggo i libri e quando vado in biblioteca non li rubo. Sono svedese?». Dell’omicidio del premier Olof Palme e poi della ministra degli Esteri - Anna Lindh, pugnalata a morte in un grande magazzino - si ricordano tutti. Ma il dato che si cerca di non vedere è questo: nel 2018, sono avvenuti 148 omicidi in un Paese di 10 milioni di abitanti. È come se in Italia, che di abitanti ne ha 60 milioni, venissero uccise 900 persone all’anno. Più del triplo degli omicidi che si commettono in realtà da noi.

E ancora: «Noi, il Paese delle donne»: si legge nelle pubblicità progresso. Però, si piazza al secondo posto tra le nazioni con il maggior numero di violenze sessuali al mondo, con 53,2 stupri ogni 100mila abitanti, superato solo dal piccolo stato del Lesotho, nell’Africa del Sud. Dal femminismo (e dal femminicidio) al multiculturalismo. Così ideologicamente hard e culturalmente oppressivo, che si è svolta questa vicenda da teatro dell’assurdo nel Reale Istituto di Tecnologia. Uno studente universitario e due sue colleghe discutono se sia vero che gli autori dei reati siano soprattutto immigrati e figli di immigrati.

Le ragazze dicono che non è vero, il giovane - Felix - sostiene che è così e l’indomani porta, a conferma, i dati dell’ufficialissimo Consiglio nazionale per la prevenzione del crimine. Non lo avesse mai fatto. Viene denunciato per «atteggiamenti intimidatori» e razzismo. Finisce davanti alle autorità accademiche, in una sorta di processo con i professori infuriati che gli dicono: «Lei può avere le sue idee ma queste non possono offendere i sentimenti degli altri». E lui: «Ma i sentimenti non possono avere la prevalenza sulla libertà di espressione. Io ho solo portato dei dati sui reati. Non si può? Siamo in Corea del Nord?». 

No, sembra esserci però una cappa asfissiante di correttezza formale. In una società fondata sui due concetti cardine degli svedesi e che loro stessi raccontano con malcelato orgoglio: Jantelagen e Lagom. Il primo significa la legge di Jante. Ed è il comandamento che prescrive di «non uscire mai dalle regole» e di non credersi «migliore di qualcun altro».

Naturalmente, siamo in piena ipocrisia da sistema che vuole livellare tutto e tutti e perfino il prelievo fiscale iperprogressivo e paralizzante serve a questo scopo anestetico. Il top manager deve guadagnare quanto, o poco più, della sua segretaria. È il condensato della finzione Jantelagen.
Ma ovunque, negli uffici e persino lungo la Landesvagen, la via dominata dal quartier generale della Swedbank, si sente parlare del «giusto mezzo». E questo è il Lagom, ossia «devi fare quanto è sufficiente e non di più, senza mai eccellere».

Tarpare insomma le ali dell’ambizione individuale, in nome della maschera dell’egualitarismo. È uno dei pilastri di una nazione che a suo tempo evitò la rivoluzione socialista, facendo ricorso al modello social democratico e al welfare-state, ma con il trascorrere dei decenni quello che pareva, appunto, il giusto mezzo si è trasformato in una gabbia. Nella quale la mentalità sindacale è diventata sistema. L’attuale premier socialdemocratico, Stefan Lofven, in un governo debolissimo dopo l’avanzata dei sovranisti e con il partito del premier al minimo storico (28 per cento), non fa che ricordare con orgoglio le sue origini di leader sindacale. E i sindacati sono ovunque, nei vertici della politica, nei board delle aziende, e in tutti gli snodi decisionali della vita sociale ed economica. 

LE DISPARITÀ SOCIALI 
Si dicono fieri della loro eguaglianza sociale, senza minimamente accorgersi della profonda disparità nella ricchezza che caratterizza il Paese allo stesso tempo problematico e naive (nessun politico o alta carica ha la scorta nonostante le continue minacce jihadiste). Eppure c’è un numeretto, quello del coefficiente di Gini, che rompe la favola. L’indice della diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza è il secondo più alto tra i Paesi industrializzati (0,853 su un massimo di 1). Si, è vero, i redditi sono tutti uguali (in questo caso l’indicatore con lo 0,25 lo colloca come terz’ultimo al mondo per le diseguaglianze salariali), e dunque la ricchezza, quella vera, è concentrata in pochissime mani. Così l’ex modello socialdemocratico è allo stesso tempo la patria dei “maharaja”. Una società a suo modo di casta.

Perché tutto si tenga, è necessario far coincidere la propria auto rappresentazione virtuosa con una realtà che sia a sua volta edificante. L’espediente per produrre questa coincidenza fittizia è la pratica nazionale dell’assolversi. Nella Svezia degli scandali i casi più scabrosi vengono rapidamente insabbiati. Non solo Swedbank. Meno di due mesi fa, è andato in scena un film molto simile per il campione nazionale delle telecomunicazioni, Telia. Finita in una storia di mazzette in Uzbekistan. I giudici svedesi hanno assolto la società con questa motivazione: le tangenti erano state pagate a Gulnara, la figlia del dittatore Islam Karimova. Non aveva incarichi di governo e, dunque, tecnicamente, in base alla legislazione svedese, le mazzette non potevano considerarsi tangenti.

Qui ci si focalizza sulle minuzie del politicamente corretto, che gli svedesi considerano l’indice supremo della propria rispettabilità e buona immagine. Lo ha scoperto a sue spese un italiano, Giovanni Colasante, consigliere comunale di Canosa, protagonista di una vicenda tragicomica. È stato processato per la seguente scena, avvenuta nel centro di Stoccolma. Lui voleva mangiare in un ristorante. Il figlio dodicenne obietta: «No, papà, andiamo in pizzeria». Cerca di scappare, ma viene raggiunto dallo scappellotto del genitore. Alcuni passanti chiamano subito la polizia e Giovanni viene portato via ammanettato e chiuso per tre giorni nel carcere di Stoccolma con l’accusa di percosse. Processo per direttissima. Una legge del 1979 vieta di percuotere i minori. Lo schiaffo di una nazione assurda.

(1-continua)

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