Tato Russo: «Napoli? Possiamo lasciarla
solo se la portiamo dentro»

di Luciano Giannini
Sabato 21 Novembre 2015, 10:55 - Ultimo agg. 12 Novembre, 00:14
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Con l’età Tato Russo non ha perso lo spirito caustico, ma l’ha condito con le riflessioni di una vita che lo portano sempre di più a osservare dall’alto le macerie del mondo. «È la quinta stagione che faccio questo Pirandello. La gente lo vuole e io non me ne libero più». «Questo Pirandello» è la sua riduzione - «forse ispirata dalla mano stessa dell’autore» - del romanzo giovanile «Il fu Mattia Pascal», in scena all’Augusteo da stasera a domenica e dal 2 al 6 dicembre prossimi.

Tato, che cosa l’ha spinta verso quel romanzo?

«Cinque anni fa mi attirò perché io sono sempre alla ricerca di me stesso. Molti cercano di capire chi sono e spesso scoprono di voler essere qualcun altro, come Mattia Pascal, che scappa di casa per sfuggire a una insopportabile vita familiare, va a Montecarlo, vince molto denaro, legge per caso su un giornale l’annuncio della propria morte presunta; e cerca di rifarsi un’esistenza diventando Adriano Meis anche se, poi, finirà per portare fiori sulla propria tomba».

Dunque?

«Quante volte diciamo a noi stessi: ”Ah, se avessi fatto questo, se avessi accettato, o non accettato quei compromessi... ma alla fine restiamo sempre noi, incapaci di sottrarci al destino che è nei nostri geni, nel carattere, nella famiglia, nella storia dei nostri minuti, che si rincorrono, si accumulano, si costruiscono in una certa maniera e dai quali non possiamo liberarci. Questi temi attirano soprattutto i giovani. E molti, infatti, hanno affollato le oltre 300 repliche che ha avuto il mio allestimento».

Parliamo della sua riduzione.

«Questo è il terzo romanzo che porto a teatro, dopo ”I Promessi Sposi” e ”Il ritratto di Dorian Gray”. È un’opera giovanile, ma la sua fascinazione sta nel fatto che contiene in nuce tutti i temi del Pirandello maturo. Il resto è opera della mia mano, guidata forse dal suo demone... Garcia Lorca parlava dello spirito del duende. Diciamo che l’intuizione d’artista mi ha permesso di unificare la storia e i personaggi in uno stesso tratto stilistico».

E qual è?

«Lo spettacolo è un viaggio nella memoria, in cui tutto procede per sottrazione, fino al vuoto; a cominciare dalla scenografia, prima affollata di ambienti e oggetti che a mano a mano scompaiono lasciando il palcoscenico nudo. Anche a noi accade lo stesso. Io, per esempio, oggi si direbbe ”resetto” ogni ricordo, quel che ho fatto e scritto... cancello per andare avanti. Siamo contenitori anche noi, come i pc, abbiamo i nostri giga, che un bel giorno si esauriscono. Dunque, bisogna svuotare il serbatoio, che contiene spesso tante cianfrusaglie stupide e vane. La demenza senile è un ottimo sistema per fare questo reset».

Che cosa vorrebbe mettere in scena, ma vede come un sogno proibito?

«Ho scritto da cinque anni un quinto musical, ”Elephant Man”, sulla storia di Joseph Merrick, divenuto famoso in epoca vittoriana per la sua estrema deformità. È una riflessione sulla diversità. Voglio proporla al Napoli Teatro Festival, ora che alla sua guida c’è un artista intelligente come Franco Dragone. Forse è la volta buona».

Che cosa pensa delle stagioni che i suoi figli hanno proposto e propongono al Bellini?

«Fanno benissimo, sono nuove, varie. Io mi sono rottamato anche per consentire loro di fare quel che fanno. Dico solo che non dovrebbero rifiutare la tradizione e la cultura di questa terra. Devi nascere a Napoli anche per rinnegarla ma, quando lo fai, devi tenerla in corpo, perché è depositaria di una grandissima civiltà».

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