La città fragile che ha smesso ​di curare le sue ferite

di Bruno Discepolo
Martedì 24 Novembre 2020, 00:00 - Ultimo agg. 07:06
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Quella maledetta domenica di quarant’anni fa, il 23 novembre del 1980, produsse due differenti fenomenologie di terremoti. 
Il primo, il terrificante sisma che sconquassò estese porzioni di aree interne appenniniche, della Campania e della Basilicata, solo marginalmente della Puglia. Il secondo, il terremoto che colpì la città di Napoli, con un limitato carico, in termini di perdita di vite umane (per quanto 52 vittime, anche se rapportate alle quasi 3000 dell’Irpinia, si possano considerare poche) e distruzione di case, ma con conseguenze egualmente devastanti sul tessuto economico e sociale della città.

Se non rischiassi di apparire eccessivo, avanzerei la tesi che, a suo modo, il sisma del 1980 non fu, per le aree del cratere, evento sconosciuto o inatteso, replicando, anche se con effetti ancora più gravi, cataclismi già intervenuti, solo nell’ultimo secolo, nel 1910, nel 1930 e nel 1962. Di contro, nella metropoli napoletana, una terra di certo fragile e vulnerabile, quel 23 novembre, ma soprattutto ciò che da quel giorno si produsse con la ricostruzione, ebbe l’effetto di mettere in crisi i già incerti equilibri territoriali, le forme dell’economia locale, le strutture sociali, con conseguenze perfino, e non sembri eccessivo, dal punto di vista antropologico.

Nella storia recente di Napoli, si può affermare a ragione che il terremoto del 1980 rappresenta uno spartiacque, vi è un prima ed un dopo. Le ferite che ne sono seguite, e molte ancora non rimarginate, in parte sono ascrivibili ai condizionamenti psicologici, comportamentali, culturali, lavorativi, dovuti al trauma subito, ma più ancora alle decisioni e ai provvedimenti varati per favorire la ripresa e la ricostruzione.

Tra i tanti esempi di conseguenze nefaste dovute alle scelte operate all’epoca, basti ricordare che prima del sisma nell’area napoletana operavano alcune tra le imprese di costruzione più prestigiose d’Italia, ai primi posti nella graduatoria delle aziende più importanti per fatturato e portafoglio.

Dopo alcuni decenni e molti miliardi riversati sul territorio, con la formula dei concessionari e delle ricche anticipazioni, il risultato paradossale è stata la scomparsa o quasi di un tessuto imprenditoriale, almeno a livello nazionale, ed un oggettivo impoverimento della struttura economica regionale.

Poi vi sono le ferite apportate al corpo vivo della città, alle sue case, ai suoi spazi pubblici e privati. Anche in questo caso, all’epoca fu avviato uno dei più imponenti programmi di reinsediamento della popolazione e ricostruzione di edifici danneggiati. Vi fu molta enfasi nel presentare il progetto e anticiparne gli esiti e il giudizio. Oggi, a distanza di tanti anni, è arrivato il momento per avviare un bilancio critico di quell’esperienza, non solo dal punto di vista urbanistico, architettonico o paesaggistico.

Infine, un lascito che non vale solo per Napoli e la Campania, è la consapevolezza della dimensione dei rischi connessi all’idea di abitare lo spazio urbano, quella città fragile sulla quale, da tempo, ritorna Il Mattino con insistenza ed attenzione. Napoli, a partire dai primi anni 2000, ha aperto una strada e costituito un modello a livello nazionale, con buone pratiche nel campo della promozione del recupero e della rigenerazione urbana. Oggi è possibile, dopo una incomprensibile interruzione di quell’esperienza, riprenderla nell’ambito delle nuove politiche di riqualificazione, consolidamento ed efficientamento energetico del patrimonio edilizio, con strumenti quali l’eco, il sisma e il super bonus, e rilanciare un esteso piano di rinnovamento urbano. È forse venuto il tempo di sostituire i ponteggi che ancora ingabbiano palazzi e strade del centro storico napoletano con edifici restaurati e luoghi messi in sicurezza e restituiti agli abitanti.

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