Trattativa, il racconto distorto di certi pm

di Carlo Nordio
Venerdì 24 Settembre 2021, 23:35 - Ultimo agg. 25 Settembre, 07:48
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La prima reazione emotiva alla pronuncia della sentenza di Palermo che ha stracciato anni di indagini devastanti per gli imputati, costose per la giustizia, e umilianti per il Paese, sarebbe stata quella di rivolgere ai magistrati che Sciascia definiva professionisti dell’antimafia le parole indirizzate da Cromwell al Lungo Parlamento, e che Leo Amery ripeté a Chamberlain dopo l’umiliante disfatta della Norvegia: «Troppo a lungo avete occupato quel posto per quel poco di bene che avete fatto. Andatevene, e sia finita con voi. In nome di Dio, andatevene».

Tuttavia, poiché sappiamo che sarebbero moniti inutili, respinti con sdegno in nome dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, dell’obbligatorietà dell’azione penale e di altre petulanti litanie, ci limiteremo a un paio di considerazioni, una di ordine giuridico-politico, l’altra di costume. 
La Prima. È quasi banale dire che occorre aspettare le motivazioni della sentenza. Ma possiamo provare a interpretarla. Per la posizione di Dell’Utri è facile: assolto per non aver commesso il fatto, non c’entrava nulla.

Qualcuno dirà: “Si rallegri che l’ha fatta franca, e ringrazi il cielo”. C’è una cosa che supera la stupidità umana, checché ne dicesse Voltaire, ed è il veleno dell’odio e del pregiudizio. Ma Dell’Utri può consolarsi: chi sibila questi rancori sta ora forse anche peggio di lui.

Per gli altri imputati, Mori e colleghi, la sentenza dice che “Il fatto non costituisce reato”. E qui il discorso è più complesso, e anche più interessante. 
In linea generale questa formula è meno favorevole di quella usata per Dell’Utri e di quella ancor più radicale che “Il fatto non sussiste”. Quella adottata dalla Corte di Palermo significa che il fatto in sé - presumiamo una sorta di trattativa - è avvenuto, ma era legittimo. Se così fosse, e non vediamo altra soluzione, questa formula è politicamente e moralmente molto più significativa e liberatoria di quella che il fatto fosse inesistente. Perché significherebbe che, in certe circostanze, un approccio attraverso intermediari con le organizzazioni criminali non è illecito, e anzi talvolta utile e doveroso. Convinzione che avevamo sin dall’inizio di questo strambo processo, di cui, pur da giuristi modesti, non abbiamo mai capito il capo d’imputazione. 

E la ragione è molto semplice: che lo Stato ha sempre trattato - in modo più o meno riservato - con le peggiori cosche criminali dell’Italia e del mondo. Lo ha fatto con le Brigate Rosse, pagando il riscatto di Ciro Cirillo, tenendo discretamente i contatti con i rapitori di Moro, e non cedendo alle richieste dei brigatisti solo perché erano inaccettabili.

Lo ha fatto con i terroristi palestinesi e il famoso “Lodo Moro”, accettando che l’Italia diventasse zona franca per il trasporto delle loro armi purché fosse affrancata dai loro attentati. Lo ha fatto con gli stessi dirottatori della Achille Lauro, creando un conflitto con l’America di Ronald Reagan. Lo ha fatto con tutti i banditi sequestratori di ostaggi - giornalisti, cooperanti ecc - pagando lauti riscatti anche quando aveva diffidato le vittime ad avventurarsi in luoghi ostili. Lo ha fatto fino a ieri, e purtroppo dovrà continuare a farlo quando si tratta, come si dice, di salvare vite umane. E davvero i Procuratori di Palermo credevano che lo Stato non potesse farlo con la mafia, quantomeno per evitare, come ha fatto con i palestinesi, guai peggiori di quelli già provocati? Se credevano questo, potevano anche credere all’asinello che vola. Ebbene, ora una sentenza della Corte superiore ci dice che Mori e compagni hanno esercitato una facoltà legittima, o addirittura un dovere. Ci volevano dieci anni di accuse che hanno sfiorato persino il Presidente della Repubblica, ammazzato di crepacuore il suo consulente giuridico, esposto alla gogna ministri, generali, e l’intera Arma dei Carabinieri, dilapidato enormi risorse umane e finanziare per arrivare a questo? Basta. Sia finita. 

E questo ci porta alla seconda considerazione, anche più amara. In un Paese normale magistrati che prendono simili cantonate il giorno dopo cambiano mestiere. In America, di cui abbiamo scopiazzato il codice e dove esiste quella rigorosa certezza della pena che tanto piace al dottor Davigo, Pubblici Ministeri che perdono questi processi non vengono rieletti, e tornano a casa. Noi non diremo che debbano pagare i risarcimenti: sarebbe troppo complicato e anche inutile, tanto sono assicurati. Ma rifletterci sopra, questo sì. E invece da noi, come nel caso Tortora, questi magistrati vengono promossi, fondano partiti, si candidano alle elezioni, e magari finiscono al Csm. Dove, sgradevole paradosso, giudicano gli altri magistrati, compresi quelli che nelle sentenze hanno sconfessato le loro indagini. Insomma usano la notorietà, acquistata durante anni di elogiativi peana di giornalisti compiacenti, per crearsi una confortevole cuccia una volta mollata la toga. 

A queste, e alle altre mille altre anomalie di un sistema ormai squalificato e corroso, non potrà porre rimedio, per ovvie ragioni, né questo Governo né questo Parlamento. E forse neanche il prossimo, a meno che, con una univoca e possente voce popolare, il referendum tuoni l’avvertimento e l’invito di Cromwell e Amery che abbiamo citato all’inizio: in Nome di Dio, basta! 
 

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