Effetto guerra, in Italia vola la cassa integrazione: record di richieste per hotel e ristoranti

Effetto guerra, in Italia vola la cassa integrazione: record di richieste per hotel e ristoranti
di Nando Santonastaso
Sabato 23 Aprile 2022, 00:00 - Ultimo agg. 24 Aprile, 08:16
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L’effetto guerra sull’economia italiana c’è e si vede. E non solo a breve termine. Torna a crescere la Cassa integrazione ordinaria, spia fin troppo credibile delle crisi congiunturali. Rispuntano le incognite più pericolose sulla tenuta occupazionale non solo nei settori manifatturieri già zavorrati dall’aumento del costo dell’energia ma anche in comparti strategici come l’agroalimentare, il turismo, la moda e il tessile-abbigliamento. Risale l’inflazione e non ripartono i consumi come si sperava ad inizio anno, con tutte le regioni ancora lontane dai livelli del 2019 (che aveva peraltro già registrato un rallentamento). Traballa l’export, a partire dalle aziende impegnate fino a poche settimane fa sul mercato russo, ora off limits. Preoccupano i dati di marzo disponibili al momento e la media trimestrale, la prima del 2022: il taglio del Pil è ormai certo e il rischio della recessione comincia a prendere corpo (gli effetti più significativi potrebbero arrivare già a metà anno, come da tempo sostengono non pochi economisti). Lo ha detto ieri anche l’Fmi: per «alcune delle più grandi economie europee come Francia, Germania, Regno Unito e Italia» è prevista «una crescita trimestrale molto debole o negativa alla metà del 2022». Il Fondo monetario internazionale ha indicato per l’Italia un Pil a +2,3% quest’anno, +1,7% il prossimo e +1,3% nel 2024. Ecco allora quanto può costare al Paese l’impatto del conflitto in Europa orientale, sempre a patto che non si allarghi a scenari più vasti.

La tempesta perfetta - fortissimi rincari energetici e conseguenze della guerra in termini di mancato approvvigionamento di materie prime - è in pieno svolgimento. Il Centro studi di Confindustria stima un calo della produzione industriale italiana dell’1,5% dopo il +1,9% di febbraio. Ma una vera e propria tendenza alla flessione anche nei prossimi mesi è già adesso ritenuta assai probabile: la recente indagine di Bankitalia segnala che il 47% delle imprese, quasi la metà, ritiene «nulla la probabilità di miglioramento delle prospettive economiche nel 2° trimestre» mentre i giudizi sulle condizioni per investire crollano al -49,1% da +6,7% dell’ultimo trimestre 2021. 

I rincari dei prezzi energetici (+52,9% a marzo) «comprimono il potere d’acquisto delle famiglie e ciò influirà sull’ampiezza e il ritmo di crescita dei consumi, il cui recupero è stato prima ostacolato dall’aumento dei contagi e ora anche dalla maggiore incertezza che influenza la fiducia, che a marzo è crollata» scrive Confindustria. La già spiccata propensione al risparmio delle famiglie non si “normalizzerà” a medio termine e lo conferma indirettamente l’ultimo report dell’Osservatorio sui consumi di Confimprese ed EY relativo, appunto, a marzo: rispetto allo stesso mese del 2019, i dati sono ancora negativi con un totale mercato che si assesta a -19,3% mentre il confronto tra trimestri scende leggermente (-18,3%). Nei settori merceologici il settore abbigliamento-accessori registra una flessione nel mese pari a -31,3%: «È il comparto che soffre di più e che non mostra al momento segni di recupero, con una chiara evidenza dell’orientamento dei consumatori che, dopo due anni di pandemia, prediligono ora i consumi fuori casa, con la ristorazione in recupero relativo (-8,7%)».

Sul piano territoriale, tutte le regioni e le macroaree confermano il segno negativo, con il Nord-est che registra l’andamento peggiore a -28,8%, seguito da Nord-ovest a -19,9% e Centro a -17,4%. Il Sud tiene maggiormente (-6,6%) e Napoli si rivela a marzo l’unica grande città in controtendenza con un +35,4% che viene fatto risalire all’apertura di nuovi punti vendita commerciali.  

Le esportazioni italiane subiranno un pesante rallentamento nel 2022 (+2,8%), dopo l’ottimo 2021. Per quest’anno, spiega viale dell’Astronomia, la crescita sia dell’export che dell’import viene rivista al ribasso di circa 5 punti rispetto allo scenario di ottobre 2021. Saranno in buona compagnia, a quanto pare, visto che il commercio mondiale crescerà di appena il 2% nel 2022. Di sicuro la chiusura del commercio in Russia si è abbattuta sul made in Italy, colpendo le 130 aziende italiane attive nel Paese (in particolare in Emilia-Romagna), per una perdita complessiva di 13 miliardi di euro. Nel solo settore dell’e-commerce, a farne le spese sarà soprattutto la moda che in Italia rappresenta il 53% dell’export on-line di beni di consumo, per un valore di circa 7,1 miliardi di euro. 

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Qui i numeri si sprecano e seguirne l’affidabilità è decisamene complicato (quelli dell’Istat sul mercato del lavoro a marzo arriveranno il 5 maggio). Si va dai 26mila lavoratori dell’industria, soprattutto siderurgia e automotive, indicati dalla Fim Cisl ai 50mila complessivi ipotizzati dagli artigiani. Per arrivare però a cifre decisamente più tragiche come quelle che parlano di 1 milione e 400 mila posti di lavoro e di 184mila aziende a rischio a causa del caro energia amplificato dalla guerra in Ucraina, tra quelle che operano in settori tradizionalmente energivori (metallurgico, automobilistico, del legno, della plastica, del vetro e della ceramica) ed altre che potrebbero pagare alla lunga le conseguenze del blocco dell’export verso la Russia. 

Una conferma arriva dagli ultimi dati Inps sulla Cassa integrazione ordinaria che si chiede, come detto, per crisi congiunturali. A marzo, dopo mesi di cali continui, sono tornate a salire per il 20,9% rispetto al mese di febbraio (si è passati da 18,4 milioni di ore di febbraio a 22,3 milioni di marzo). I settori che lo scorso mese hanno registrato il maggior numero di autorizzazioni sono proprio quelli a rischio più elevato anche per l’effetto guerra: industrie tessili e abbigliamento, settore pelli, cuoio e calzature, attività immobiliari, noleggio, informatica, ricerca, servizi alle imprese. La categoria alberghi e ristoranti è tra i settori che hanno richiesto il maggior numero di ore di Cig in deroga mentre a livello di distribuzione geografica, il Piemonte è la regione che ha avuto il maggior numero di ore di Cigo autorizzate sul totale di 56,1 milioni di ore di Cig concesse. Un numero infinitamente più basso di quello degli anni della pandemia ma non tale da poter compensare l’allarme che la guerra e i rincari energetici hanno scatenato anche sull’economia italiana.

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